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L'Arte della contemporaneità

ovvero della psicologia dell'arte nel laboratorio delle immagini

Irene Battaglini

arte della contemporaneita
immagine n. 1 – da www.ariannaeditrice.it
 
L'arte permette di raggiungere il fondo delle cose, la verità notturna dell'esistenza. Sublimazione di un'individualità condannata a correre verso la propria fine, è perciò un'illusione. Divisa tra profondità e superficie, tra dolore e godimento, ci aiuta a sopportare la Verità, nel senso che essa è un rimedio metafisico alla dimensione tragica dell'esistenza.
FRIEDERICH NIETZSCHE

Le gran point est d'ętre ému, d'aimer, d'espérer, de frémir, de vivre. Ętre homme avant d'ętre artiste.
AUGUSTE RODIN

Ci sono stati dati gli strumenti della terapia con l'arte, del gioco della sabbia, la drammatizzazione, la danza, l'argilla, e stanze per la conversazione e il silenzio. Inoltre, a differenza degli artisti, ci è stata data una speciale autorità per usare questi strumenti immaginativi con quelle vittime della civiltà, quelle persone sintomaticamente private dei diritti civili che sono i nostri pazienti.
JAMES HILLMAN

Arte e Psicologia: in un campo di studi dichiaratamente transdisciplinare, l'ipotesi di lavoro di questo mio contributo è che si possano utilizzare le immagini in modo diretto, esperienziale ed intuitivo, all'interno di un vero e proprio "laboratorio", per muoverci agilmente tra Arte e Psiche nel regno dell'immaginale1, con la speranza di individuare coincidenze e reciprocità, e nel tentativo di produrre congetture feconde tra le diverse prospettive (neurobiologiche, umanistiche, socioculturali, ... che inevitabilmente entrano in gioco). Adotteremo a strumentazione tecnica le varie concettualizzazioni che stanno alla base dei costrutti cui faremo riferimento, demandando ove possibile alle bibliografie specialistiche, e alle numerose rassegne critiche di studi sulle arti-terapie o della terapia con l'arte, e insieme indagando su quell'insieme di prassi, tecniche e costruzioni epistemologiche che da anni sono oggetto di pubblicazioni, convegni e statuti di scuole di psicologia e agenzie formative in Italia e all'estero.

Il "lavoro" al Laboratorio delle Immagini (LDI)2, è basato su una posizione "esistenziale" di continuo apprendimento, di apertura al dubbio, di confronto con il mondo dell'arte e della psicologia. Non può definirsi a priori "psicoterapico" e neppure si può considerare meramente di "sviluppo delle risorse".

Si assiste frequentemente, alla modalità bipartita di intendere l'intervento psicologico, che se da una parte può essere riferito alla "cura" rispetto al paziente classificato in una nosografia psicopatologica, dall'altra spesso viene "adottato" a sistema di "valorizzazione e riabilitazione" delle risorse sopite nel cittadino-utente della comunità. Questo è perfettamente vero, ma insufficiente, come tutti i tentativi di operazionalizzare il fare psicologico, in quanto la patologia è spesso in rapporto dialettico con le risorse, e nel contempo non si può negare che uomini e donne perfettamente sani abbiano talora scarsità e di risorse creative e di competenze sociali, rischiando lo scivolamento nel versante prima richiamato, quello della psicopatologia.

Proviamo a produrre un'immagine per uscire dall'empasse del pensare dicotomico.

concept-house, LDI, acqua, acidi e grafica su fotografia digitale
immagine n. 2 – Concept-House, LDI, acqua, acidi e grafica su fotografia digitale

Visualizziamo insieme un luogo poliedrico, surreale, allestito su ponteggi variamente percorribili e imbastito di porte semiaperte con discrezione, che fanno intravvedere stanze ricche di idee e possibilità (compresa la possibilità del silenzio, dell'inazione, dell'astensione), di professionalità e strumenti, stanze in cui trovare conforto e gentilezza, ascolto e accoglienza per le ferite, un luogo ove le "psicopatologie" possono essere ferite nell'accezione di "feritoia" postulata da Carotenuto3, quale «minuscolo varco che ti consente di tenere d'occhio il tuo mondo interiore, di scrutare ed indagare la parte più misteriosa e segreta di te stesso», nel tentativo di oltrepassare la cortina di uno star male medicalizzato, e iniziare a pensare ad una difficoltà per essere scaraventati nel mondo in una solitudine ontologica, derivante da una negazione, che non può dipendere in termini causalistici solo dai vissuti primari, dai traumi subiti, dalle esperienze non elaborate.

La solitudine affettiva non può essere l'interregno tra condizione di normalità e condizione di malattia, in cui collocare le relazioni di aiuto non bene identificabili; la solitudine di cui parliamo è luogo di transizione, sembra essere più vicina ad una zona fluida tra mondo interno e mondo esterno, luogo di raccolta e di perdita di immagini e sogni, di ricordi e riflessioni, di sofferenze e ipotesi di gioia, di nemesi possibili, stoccaggio di rifiuti quanto di beni preziosi, di lacerazioni e rattoppi, dai confini più o meno permeabili somiglianti per funzionamento alla membrana cellulare, che colui che è consapevole del proprio «mondo interiore del trauma»4 riesce meglio a riconoscere come luogo elettivo di domicilio psicologico, poiché sa prima di altri quanto costi all'uomo essere al mondo, «quale sia il prezzo per l'aria»5. Una inquietudine vissuta ed espressa da poeti, letterati, artisti nei secoli e dall'uomo fin dalle origini dell'arte arcaica. Se si pensa alla immagine di questo non-luogo qual è la fabbrica interna di produzione, il regno immaginale, non è difficile potersi riferire al Losfeld di Enrico Borla e Ennio Foppiani6.

Possedere una zona dove illusioni e realtà hanno ampie correlazioni, non ci dà motivo di credere che a questa siano ascrivibili i danni psichici, semmai possiamo affermare con maggiore tranquillità che questa zona ci dà accesso, regolamentato e sensibile, anche gli archivi più vecchi delle memorie.

Graziella Magherini, nel suo "Modello della fruizione artistica"7, fa riferimento in modo esplicito a Donald Winnicott8 e alla psicologia dello sviluppo, con una rassicurante lettura della zona "fluida": «La madre, all'inizio, con un adattamento quasi del cento per cento, fornisce al bambino l'opportunità di una illusione che il suo seno sia parte del bambino. [...] Il compito attuale della madre è disilludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranze di riuscire a meno che non sia stata capace da principio di fornire sufficientemente opportunità di illusione. [...] La madre pone il seno proprio là dove il bambino è pronto a crearlo. Dalla nascita, pertanto, l'essere umano è occupato nel problema del rapporto tra ciò che è percepito e ciò che è concepito soggettivamente. [...]

L'area intermedia cui mi riferisco è l'area che è consentita al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà». [...]

Non si tratta di un mondo freddo, inanimato ed estraneo; il bambino sente quel mondo che lo circonda come una sua creazione: ma non del tutto, perché egli comincia ad avvertire che c'è un fondo oggettivo negli oggetti; il fatto che la madre sia stata capace di conoscere i suoi bisogni fino «al punto di offrirgli qualcosa più o meno al posto giusto [...] crea nel bambino la capacità di utilizzare le illusioni, senza la quale nessun contatto è possibile tra psiche e ambiente». Si avvia un processo di simbolizzazione, per cui il mondo diviene emotivamente – esteticamente significativo, in quanto in esso il bambino mette parti del proprio mondo interno e degli oggetti per lui primariamente significativi.

D'altro canto, arte e malattia mentale sono spesso legate da un nessi insondabili, come scrive lo stesso Karl Jaspers in Genio e Follia nella sua analisi patografia di Strindberg e Van Gogh:

Lo spirito creativo dell'artista, pur condizionato dall'evolversi di una malattia, è al di là dell'opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita9.

assetti architettonici di nuova generazione al Center George Pompidou, Parigi
immagine n. 3 – assetti architettonici di nuova generazione al Centre George Pompidou, Parigi

Questa casa metafisica in cui non ci si pone come ordinatori di elementi da sistematizzare, fa venire in mente De Chirico, ma anche gli ultramoderni plastici di architettura esposti a Parigi al Centre G. Pompidou, le scatole di Fausto Melotti, ma anche i canovacci dalle caselle indefinibili di Paul Klee e altro ancora. Nel contempo mi fa pensare allo studio di un artista eclettico che si muove in modo incostante tra i diversi linguaggi a disposizione, ove il paziente, in questa "casa sospesa", esce dalla condizione patologizzante per vestire, seppure nel tempo previsto dalle sessioni di "lavoro", nelle vesti archetipiche di un visionario equilibrista, «disordinato frequentatore di sogni»10, attingendo al mondo onirico e al mondo immaginale come a tutti gli altri mondi di cui l'uomo dispone, e che spesso non esplora solo perché non vi sono le condizioni per poterlo fare, vale a dire gli strumenti per accedere, le passwords, in altre parole: le opportunità.

Non sono un viaggiatore, eppure le parole di Maqroll entrano in me, scuotendomi con un profondo brivido, quando dice: «Sono il disordinato frequentatore delle più nascoste rotte, dei più segreti approdi»11. La vita sulla terra, una casa dove tornare, sono cose lontane da Maqroll. Non per difesa da una ferita insanabile, non per amori passati che lo abbiano ferito profondamente da indurlo a lasciare la terra e iniziare questo peregrinare continuo. La motivazione che lo spinge a questo viaggio appare complessa. Non è nulla di comprensibile razionalmente, non è un evento particolare, sembra piuttosto connesso alla natura stessa di Maqroll. La domanda sul perché non è possibile per lui una vita normale, rimane costantemente senza risposta. Egli non è deluso, semplicemente avverte un senso di estraneità a tutto ciò che riguarda i legami, le radici, gli affetti profondi. Maqroll non appartiene a un posto, non ha una terra, ma soprattutto non ha nostalgie verso una terra dove tornare. [...] Questa mancanza di nostalgia è, come dice lo stesso Maqroll, il segreto per vivere con gli dei. E' quella caratteristica che fa di Maqroll un personaggio archetipico, slegato da altre figure di marinai. [...] Intuito, capacità di ascolto12 ...

Nel Laboratorio delle Immagini si svolge un vero e proprio "lavoro" nelle cose dell'oggi, utilizzando le esperienze pregresse come vocabolario di segni e parole, archivio di forme, memorie cromatiche, albi di fotografie, gallerie virtuali: in sintesi una biblioteca multimediale costituita da banchi di "assets formativi e informativi" allocati in un altrove che resterebbe patrimonio investito in titoli inesigibili, se non potesse essere dato corso ad una «azione formalizzante» come avviene nel processo creativo.

Pandora Tabatabai Asbaghi, curatrice con Jerry Gorovoy di Louise Bourgeois, Blue Days and Pink Days (Fondazione Prada, Milano 1997), sostiene che nella vita dell'artista centenaria,

il suo lavoro e la sua storia sono inestricabilmente fusi. Il suo passato le fornisce gli strumenti per vivere e lavorare nel presente. «Non sono solo "parole antiche". Io lavoro con l'oggi ... Emozioni eterne, universali e sempre presenti. Soprattutto la violenza, la gelosia e la paura»13. [...] «Credo nella scienza, nella psicoanalisi, nella filosofia. Per me l'unica cosa che conta è il tangibile»14. Louise Bourgeois ha sviluppato una profonda intuizione nella logica degli istinti della vita, trasformata incessantemente in grandi opere d'arte nel corso di quasi un secolo, poiché, per Louise, «L'arte garantisce la salute mentale»15. Ripete con insistenza storie della sua infanzia, il nido delle sue esperienze formative. I suoi genitori, restauratori di arazzi, possedevano un laboratorio nella dependance di una villa di campagna a Choisy-le-Roi. Insieme al fratello e alla sorella formavano una famiglia raffinata, accudita da una madre diligente e paziente, e frustrata dal padre, un libertino dall'aspetto affascinante. La loro lavorante la avvicinò agli aspetti relativi all'anatomia e alla sessualità. Quando Louise ricorda la sua insegnante di inglese, che divenne l'amante del padre, affiorano emozioni di rabbia e tradimento; nacquero così sensazioni ambigue sull'erotismo. Il suo talento precoce nel disegno la portò a disegnare, all'età di dieci anni, i piedi danneggiati degli arazzi consunti, mentre la madre sostituiva i genitali dei putti con grappoli d'uva per evitare di offendere la sensibilità dei clienti perbenisti. I ricordi e le esperienze di Louise hanno contribuito a far diventare le parti del corpo, talvolta cariche di significati sessuali, altre volte segnate da menomazioni, un motivo ricorrente e affascinante del suo lavoro. Una sua incisione, intitolata The Accident (L'Incidente) (1999), mostra una gruccia che trapassa un corpo femminile all'altezza dello stomaco, quasi a trasmettere la dolorosa impossibilità di esprimere emozioni profonde. Un'altra, intitolata Don't put Your Foot in Your Mouth (Non Mettere il Piede in Bocca) (1999), può suggerire un invito a disubbidire. Il motivo ricorrente del ragno è un tributo alla madre, il suo senso di protezione per i figli, e un richiamo per i suoi modi strategici e razionali. In una recente incisione Spider Woman (La Donna Ragno) (2005), Louise raffigura un ragno rosso sospeso in un ovale rosso; potrebbe essere la giovane Louise, incapsulata in un uovo, in attesa di assumersi il ruolo di madre o di divoratrice? Un'altra dedica alla maternità è l'incisione di una donna nuda dall'aspetto elegante con una collana di perline bianche al collo. La ferocia del colore rosso indica una maggiore attenzione all'attrattiva fisica che a quella di essere una madre amorevole. Nel caos delle emozioni mascherate e ambivalenti che agiscono in quello che spesso diventa il mondo della verità degli adulti, una giovane sensibile è lacerata tra sentimenti di fedeltà e di rifiuto verso le persone amate. Si tratta di «un dramma del sé ... riferito alla paura di uscire dalle righe e fare del male agli altri. L'autocontrollo è sempre l'obiettivo primario ... in modo da non rivolgere la propria violenza sugli altri ... E' una discesa nella depressione, ma credo nella resurrezione del mattino. E' un ritiro, ma temporaneo. Si perde la propria autostima, ma ci si rimette in piedi. E' la sopravvivenza ... la volontà di sopravvivere.»16 Altalenando tra ondate di disperazione e di ottimismo, con una stupefacente preveggenza della preoccupazioni e dei valori del nostro tempo, la forte volontà e l'energia creativa di Louise hanno modellato la sua disperazione in forme d'arte attraverso le quali affronta molti tabù, rivelando l'indicibile, invitando noi, spettatori e commentatori, ad avere il coraggio di fare lo stesso, a esorcizzare il nostro dolore ammettendo le nostre fantasie anziché reprimerle. [...] Conferendo fisicità al problema, Louise mostra come sia possibile trascendere la paura che deriva dal dolore in una realtà gestibile. [...] Come diceva Marcel Proust, nel suo romanzo autobiografico Alla ricerca del tempo perduto, le sensazioni istantanee apparentemente insignificanti possono dimostrarsi, all'interno di uno stile di flusso di coscienza, quelle più importanti per esperire il passato in modo completo, quale parte contemporanea al presente. Louise condivide con Proust il piacere di tali sensazioni istantanee, di ricordi attivati dal gusto delle loro Madeleine preferite, un argomento buffo elaborato nella stampa Madeleine (1999).

A proposito di Louise Bourgeois, il giornalista Renato Diez:

Nelle sue sculture si ritrovano, di volta in volta, le battaglie contro la depressione, l'insonni o l'agorafobia: Louise Bourgeois sa come tradurre ansie e ossessioni in opere d'arte. Per farlo, ha usato ogni genere di materiale, dal legno trovato nelle strade di Manhattan delle composizioni povere degli anni Quaranta, al marmo, al bronzo e alla pietra del periodo seguente. Più recentemente si è servita dell'acciaio per le sue monumentali Cells, e del ricamo per le sculture di stoffa che realizza dalla metà degli anni Novanta, una sorprendente concessione della Bourgeois all'età che, tuttavia, non le ha fatto perdere nulla della forza espressiva dei suoi capolavori. Un giorno chiese al suo braccio destro, Jerry Gorovoy, di portarle tutti i vecchi vestiti e da allora non ha più smesso di tagliare, puntare spilli e imbastire teste e figure che poi Mercedes Katz, la sua cucitrice di fiducia, trasforma nel prodotto finale: «Puoi raccontare tutta la vita attraverso il taglio, il peso, il colore di questi vestiti», ha confidato, anche se in realtà, tutta la produzione della Bourgeois rappresenta il suo passato, sia pure, puntualizza, «compulsivamente riferito all'oggi». Nei suoi lavori Louise Bourgeois esplora anche i grandi temi esistenziali della contemporaneità, la famiglia, la maternità e la sessualità tra gli altri, per approdare un sontuosa interpretazione dell'innata solitudine e della vulnerabilità dell'uomo.17

Gli psicoterapeuti che inviano i loro pazienti al Laboratorio delle Immagini, per un percorso di "creatività", restituiscono – secondo i resoconti che ne ho avuto in modo diretto – un feedback generalmente buono sugli esiti del "lavoro con le immagini". I pazienti dichiarano spesso di aver riconosciuto come propri immagini e sogni che erano stati portati in psicoterapia individuale e di cui non avevano utilizzato appieno l'elaborazione o l'interpretazione, poiché quei contenuti per essere posseduti appieno, vissuti profondamente, necessitavano essere rivisitati con l'ausilio delle vie che consentono di "con-prendere" e non solo di "conoscere": il mondo nell'accezione di tangibilità della Bourgeois. Il fenomeno sembra essere di tipo generativo, poiché il «processo competente»18 di tipo creativo non va a sostituirsi o sommarsi alla psicoterapia, e neppure sembrerebbero attivarsi meccanismi di integrazione o mediazione della psicoterapia con l'uso del mezzo espressivo, mentre è più plausibile l'ipotesi, per ora avvalorata dal metodo dell'osservazione clinica e supportata dagli assessment, di una attivazione di filtri e archetipi "altri", che ciascun soggetto inserirà nel suo corredo per la sopravvivenza e adopererà per forgiare il suo destino.

Se è vero che «la psicologia ha molto da imparare da ciò che psicologia non è, come la letteratura, il cinema, l'arte in generale»19, è plausibile che anche l'arte debba porsi in osmosi con la psicologia, accettare una qualche lettura. Non una lettura destrutturante, invasiva, interpretativa, in definitiva razionalizzante, né una ricerca prosaica di rischiosi linguaggi comuni che sorreggano l'arroccarsi su identità incomunicabili: più umilmente un tentativo di contaminazione tra codici espressivi attraverso l'esperienza della contemporaneità, una contemporaneità che si regga su una urgenza, una necessità espressiva dell'uomo, e che in alcuni artisti, come la Bourgeois, è rappresentata al massimo grado.

Gli artisti classici furono un tempo contemporanei per lo meno di se stessi, ed in quel loro tempo che oggi definiamo "classico", ebbero molto coraggio, il coraggio di ridefinire il loro modo di fare arte in modo strettamente legato al loro momento storico, poiché non ne erano affatto sbalzati fuori, al punto di essere in grado di ridefinire attraverso il loro lavoro, il momento storico in cui hanno vissuto. Psicologia e Arte a parer mio possono coesistere in una contemporaneità che non è solo il momento storico che stiamo attraversando, ma anche la contemporaneità esperita nel qui ed ora in cui si sviluppano i processi artistici o creativi. Questa contemporaneità si estrinseca al meglio nei sogni, in cui passato e futuro si intersecano con il piacere insito nella ricerca di nuovi ordini e senza troppa paura di nuove categorizzazioni.

Al pari della Musa Addormentata di Costantin Brancusi, la psicologia contemporanea nel Laboratorio delle Immagini può far rifluire i suoi sofisticati e corposi strumenti di valutazione e di intervento attraverso il "corpo" delle arti. Al pari del linguaggio, della percezione, della memoria, vi è il processo creativo artistico (ma anche non strettamente artistico), trasversale e cross-funzionale come tutte le cose dell'uomo, non disgiunto dagli altri processi che permettono all'uomo di svolgere complesse funzioni legate alla vita sulla Terra e sicuramente coinvolto al livello delle emozioni. Se il processo creativo sia o meno correlato con la biologia della sopravvivenza, lo si può indagare esplorando anche da un punto di vista antropologico la necessità che spinge l'uomo ad avvicinarsi a dire "l'indicibile": si può ipotizzare che esista una creatività "confortante", poiché permette all'uomo di alleviare un dolore, variabilmente soggettivo e per taluni inconsolabile, che egli sente ogni volta che attraversa la soglia minata che lo porta a produrre pensieri "inutili", anticonservativi, aggressivi. Non è quindi l'arte ad essere utile o inutile alla sopravvivenza, quanto invece il processo di creazione artistica, che permette di esperire una esperienza estetica complessa, ma necessaria a "stare meglio", legata al piacere della produzione e della fruizione artistica. Entrambi sono momenti esplorativi o rassicuranti, in base alle circostanze ma anche alle condizioni soggettive. Esperienza estetica e necessità del bello, sono categorie psicologiche da approfondire e costrutti che pertengono ad una neurofisiologia frutto di un percorso evolutivo che vede coinvolte varie funzioni ed aree del sistema nervoso.

Maffei e Fiorentini, in Arte e Cervello20 sostengono:

L'esperienza estetica coinvolge verosimilmente molte strutture cerebrali che certo non è facile individuare. Ciò è vero sia per il momento creativo dell'artista, sia per l'emozione provata da chi gusta un dipinto, un brano di poesia o qualsiasi altra opera d'arte. Parlare dei riferimenti cerebrali per complesse esperienze emozionali è senza dubbio azzardato. [...] Se l'opera d'arte, sia essa arte figurativa, poesia o musica, dà piacere, allora può essere interessante domandarsi se esistano delle basi nervose di questo piacere, [...] E' interessante notare che certe forme di piacere che guidano la vita dell'uomo, e che sembrano avere assunto particolari valori con la liberazione sessuale dei tempi moderni, sono in gran parte limitate al secondo cervello di MacLean21, che guida le funzioni vegetative e gli stati dell'umore, senza coinvolgere la parte più nuova del cervello che ci differenzia dagli altri mammiferi. Ora ci vogliamo soffermare sulla domanda se possa esistere un «piacere» di origine centrale, corticale, che non ha bisogno di stimoli che provengono dalla periferia o di particolari eccitazioni chimiche che arrivano ai centri attraverso il sangue, ma che è provocato da stimoli che provengono dalla corteccia cerebrale e che riescono a stimolare i centri del piacere sottostanti. L'evenienza è teoricamente possibile poiché esiste una comunicazione della corteccia con i centri sottostanti e perché inoltre, come abbiamo accennato riportando gli esperimenti di Penfield, la stimolazione della corteccia può indurre stati emozionali diversi. In via puramente speculativa, una fantasia, un pensiero potrebbero eccitare la corteccia e questa mandare i suoi impulsi eccitatori al lobo limbico e all'ipotalamo e produrre quindi gli effetti che si hanno per stimolazione di queste parti del cervello. Forse le esperienze dei mistici e dei santi, come le estasi di Santa Teresa d'Avila che Gian Lorenzo Bernini ha rappresentato in marmo in dimensioni naturali nella cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria a Roma (1645-1652) o il «felice» martirio di San Sebastiano, possono essere state esperienze di piacere a origine corticale. Il San Sebastiano di Matteo di Giovanni (1435-1495) alla National Gallery di Londra con il volto «felice» e sorridente mentre il suo corpo è trafitto da numerose frecce sembra proprio invaso da un piacere paradisiaco, probabilmente risultante dalla sicurezza del pensiero della fede. [...] La reazione ad uno stimolo complesso, sensoriale e culturale allo stesso tempo, come ad esempio l'opera d'arte, non può realizzarsi solo a livello del pensiero ma deve coinvolgere tutto il corpo, con la sua parte a controllo razionale e con quella a controllo vegetativo.

Ed è proprio la «sicurezza del pensiero della fede» e la variante dello «stimolo culturale» che fa tornare immediatamente ai bisogni di sicurezza e di conforto, a bisogni legati alla sopravvivenza, che si sono evoluti fino a formare veri e propri assetti culturali.

Ma seguiamo ancora Maffei e Fiorentini, nella loro affascinante dissertazione:

Nell'esperienza artistica si possono distinguere, forse con eccesso di schematicità, due stadi. Un primo stadio è caratterizzato dal desiderio e dall'eccitazione di esperire un'opera d'arte, visitare un museo, sentire un concerto. Un secondo stadio, che segue la fine dell'esperienza, è caratterizzato da una sorta di stato di grazia, di quiete spirituale, da sensazioni ed emozioni che chiamiamo "il piacere dell'esperienza artistica" o "piacere estetico". [...] Bisogna però dire che il piacere che segue l'esperienza estetica non è mai, come dicono gli psicologi, una piccola mors post coitum; rimane un piacere creativo, pieno di pensiero e di desideri.

La ricca sensazione di pienezza, la "plénitude" provata da Christine Bader22 lavorando a stretti contatto con Louise Bourgeois, è una condizione realizzabile nel qui ed ora, di cui la memoria del corpo è garanzia di sussistenza e ripetibilità, è base sicura cui fare ritorno, è luogo dal quale partire per nuove scoperte.

Ciò non di meno, se la forza espressiva dell'azione formalizzante, è calmante pur lasciando una certa attivazione a livello di arousal23, non sembra peregrina l'ipotesi esplicativa della Bourgeois, quando dice che si tratta «di non rivolgere la propria violenza sugli altri». In termini psicologici, il processo creativo sintetizza una forte aggressività, specialmente quando viene agito con un grande impeto corporeo, e di conseguenza la funzione biologica non si esaurisce alla circostanza di sperimentare il bello, ma si estende anche alla necessità sociale di convivere sacrificando una parte "selvaggia" a favore di quella "socialmente accettabile". Questo potrebbe in qualche modo svilire il tema dell'esperienza estetica, ma a parer mio così non è, anzi è la dimostrazione che l'uomo ha saputo, ancora una volta, saper fare con ciò di cui dispone, oltrepassando la mera necessità, rendendo sempre più eleganti le organizzazioni psicobiologiche atte allo stare al mondo.

D'altro canto, ci imbattiamo nei meccanismi evolutivi anche chiamando in causa i principi della psicologia della percezione, che stanno spesso alla base della sensazione del bello e della sua universalità.

Maffei e Fiorentini: Fra le leggi della Gestalt vi è anche quella della gute Gestalt («buona forma»), che si può verificare quando si osservano semplici figure geometriche, come triangoli, cerchi o quadrati, che abbiano piccole irregolarità o asimmetrie: si tende sempre a percepire la forma nel suo aspetto più regolare e simmetrico. Questa tendenza alla regolarità è già presente nei bambini molto piccoli. [...] Categorizzare, scoprire ordine dà piacere visivo, così come dà piacere ridurre la realtà a semplici forme geometriche. In riferimento a quest'ultimo punto, Cézanne ha scritto che la realtà si può ridurre a cilindri, sfere e coni. Salvador Dalì e l'artista olandese Escher hanno abilmente giocato con i principi percettivi della Gestalt per rendere l'interpretazione dei loro quadri instabile e misteriosa. Queste leggi «estetiche» della Gestalt in parte sono innate, ma in parte sono anche acquisite. [...] Tra le caratteristiche fisiche di animali o persone che vengono giudicate più piacevoli, vanno ricordate le caratteristiche infantili, ciò che Konrad Lorenz chiama Kindchen-Schema (schema del bambino). Secondo gli antropologi questa preferenza è motivata dai sentimenti di tenerezza e protezione tipici del comportamento materno o paterno, essenziali per la protezione della specie. Nell'uomo in particolare questo schema è caratterizzato da una testa grande rispetto al corpo, guance grassocce, contorni tondeggianti, ecc.

Edward Munch ha detto: «La natura non è solo ciò che è visibile all'occhio. È anche l'immagine interna della mente. Le immagini sull'interno dell'occhio».

L'insieme del tangibile, del naturale, del confrontabile (e quindi, si potrebbe dire del "falsificabile", del verificabile in senso popperiano), è quindi esteso alle immagini prodotte dalla mente, non solo a quelle ricevute dall'esterno come percezione. Non si esclude che nel laboratorio esperienziale non possa essere fatta ricerca, anche qualitativa, su queste percezioni interne autoprodotte, e sui costrutti che correlano l'acquisizione di determinate competenze che favoriscono il benessere psicologico: ad esempio la capacità di non pensare in modo rigido, stereotipato ed idiosincratico quando siamo posti di fronte ad un evento inatteso. Questa capacità è una delle tante che possono essere sviluppate in laboratorio, quando l'evento inatteso, come la produzione di una immagine a livello della neo-corteccia, o la fruizione condivisa di opere già prodotte, si incontra con l'ambiente dato dal setting, che è ricco di stimolazioni sensoriali fornite da colori, materiali, limitazioni tecniche e relazioni interpersonali, come quella con il conduttore del laboratorio e gli altri partecipanti. Gherardo Amadei nella prefazione a Mindfulness e Cervello24 di Daniel Siegel:

Nell'impostazione di Siegel, il Sé non è il prodotto di processi integrativi (tra individuo e ambiente e intra-individuali) ma è il processo stesso dell'integrazione che modula, in modo negoziale, l'incontro tra la maturazione, geneticamente programmata, del sistema nervoso e l'incessante flusso delle esperienze, determinato dalle relazioni e dal contesto sociale come pure, intra-individualmente, tra organi, tra apparati, tra funzioni. Corpo e mente, parte destra e parte sinistra del cervello, aree cerebrali intra-emisferiche, neo-corteccia e amigdala, SNC e SNP sono costantemente impegnati a perseguire e preservare una unità sistemica integrata mentre il continuo aumento della complessità delle connessioni in atto procede, condizione che consente di definire quel sistema "in sviluppo". Le strutture cerebrali, le funzioni mentali e le esperienze relazionali devono pertanto essere considerate come connesse in un loop, in cui le une sono contemporaneamente co-determinate dalle altre, secondo quei modi interattivi e integrativi che solo Escher riuscirebbe a rendere con un disegno. [...] Siegel individua nella mindfulness quella modalità di essere totalmente nel momento presente, di fare dunque esperienze «"dal basso verso l'alto", che finalmente ci libera dalla prigione delle influenze "dall'alto verso il basso"» (p. 134), quelle della funzione classificatrice del cervello, a cui va "prestata attenzione", nel senso che va sorvegliato. La mindfulness è attenzione della mente e del cuore al dispiegarsi dell'esperienza nel momento presente: in tal modo «ci libera dalla distrazione e dalla dispersione e ci consente di vivere pienamente ogni istante».25 [...] Insight di tipo psicoanalitico o ristrutturazioni cognitive non sono in grado di interrompere quei circuiti automatici di azioni e rappresentazioni del Sé, di noi stessi e degli altri, che si attivano per un funzionamento certo adattivo ma anche limitante la fruizione esistenziale. Siegel non propone di fondare un nuovo orientamento di psicoterapia ma di innestare la mindfulness nelle prassi psicoterapiche esistenti, in una prospettiva futura che veda l'integrazione tra i modelli (quelli più orientati verso la conoscenza vs quelli più orientati all'esperienzialità; quelli cognitivi vs quelli psicodinamici, ecc.), come una tappa obbligata verso lo sviluppo di pratiche psicoterapiche sempre più efficaci. Oltre al campo delle psicoterapie formalizzate, Siegel e i suoi collaboratori presso il MARC (Mindfulness Awareness Research Center) dell'UCLA (University of California, Los Angeles) stanno esplorando le modalità attraverso le quali recuperare i difetti di tale capacità di integrazione [di processi tra individuo e ambiente e intra-individuali, n.d.a.], mediante l'utilizzo di pratiche di mindfulness anche fuori da setting psicoterapici, come in training attentivi, in pratiche di meditazione, yoga, tai chi e altre. Alla mindfulness è infatti stata riconosciuta la capacità di promuovere le funzioni integrative della corteccia prefrontale, che sono implicate in processi di regolazione corporea, di sintonia interpersonale, di stabilità emotiva, di flessibilità di risposta, di conoscenza di sé, di eliminazione di condizionamenti rispetto a stimoli che fanno paura, di capacità di intuizione nonché di azione morale. La varietà delle dimensioni intrapsichiche e interpersonali nelle quali è implicata la mindfulness la rende immediatamente collegabile allo sviluppo del benessere, come una sempre maggior quantità di studi indica.26

In un approccio clinico, quindi, l'atteggiamento del conduttore del laboratorio dovrebbe essere prima di tutto di una mindfulness personale, per poter stare dentro una osservazione e nel contempo in una esperienza diretta dell'esperienza soggettiva condivisa con il partecipante, nel momento in cui avviene ad esempio la produzione artistica, nelle varie fasi di sviluppo del processo competente. Nel contempo, una prospettiva sperimentale, ci permette di apprendere molto su elementi che costituiscono la fondazione dei nostri comportamenti. «Il nostro mondo interno è reale, anche se non può essere quantificabile secondo le modalità spesso richieste dalla scienza per un'analisi accurata».27 Questa duplice apertura, clinica e sperimentale, ci colloca già in un processo ad alta integrazione, poiché non ci scaraventa nell'empasse di un pensare binario.

La mindfulness non è solo una attenzione, consapevole e piena, al momento presente, che può essere esperita nel Laboratorio delle Immagini (al pari quindi di altri laboratorio tecnici), ma è anche, secondo quanto appreso in precedenza, una modalità di approccio e una risultanza di processi più complessi. E' una sorta di movimento metabolico, in cui antecedenti e prodotti sono informati delle strutture molecolari coinvolte, sia a livello molare sia a livelli più profondi, innescando processi concatenati entro circoli virtuosi: è una disposizione di partenza, un metodo didattico attivo, una meta comprensione delle cose. Infatti, secondo Siegel, questa forma di mindfulness può essere considerata come una forma di apprendimento che implica la partecipazione attiva dello studente al processo stesso dell'apprendere. Credo non si possa non tener conto, nell'applicazione del metodo attivo nel Laboratorio delle Immagini, della funzione di apprendimento messa in gioco nei processi creativi, non solo per gli studenti, ma per gli utenti in vario modo immersi nella prospettiva del lifelong learning. Sull'education, uno stralcio del mio intervento a "Modelli per una base sicura "28:

Nel gioco dei rimandi l'Atelier è la base sicura che si fa luogo, uscendo dal livello metaforico e informandosi di strutture reali, reali nel senso di tangibili e concrete dal punto di vista della percezione sensoriale, entro cui muoversi, in cui ambientarsi e di cui fruire, e modificabili dall'apporto del singolo e del gruppo. Ne consegue che in un tale ambito, è nella relazione con il conduttore del gruppo, con il tecnico o il maestro d'arte, con i pari e con gli altri frequentatori, che si stabilisce una forma speciale di base sicura che, una volta divenuta parte integrante di un modello operativo interno, possa essere "frequentabile" quando il partecipante, che sia utente o paziente, ne senta la necessità nell'arco di vita. E' inoltre luogo di education e di apprendimento, in cui si imparano nuove applicazioni dei linguaggi già noti e in cui si apprendono nuovi linguaggi per descrivere nell'oggi i mondi anticamente frequentati, oppure per inventare, attualizzandoli, nuovi orizzonti per la progettazione del Sé. Il giovane partecipante può anche esplorare nuovi utilizzi dei colori e dei materiali, affinando, qualora già la possieda, la sua tecnica espressiva, mediata da nuovi contenuti che emergono dallo stare insieme ad altri partecipanti nel laboratorio.

E ancora Siegel:

Langer suggerisce che il fulcro dell'apprendimento condizionale è lasciarci in uno stato sano di incertezza che darà vita a una capacità nuova di notare le cose. [...] Le ricerche sull'apprendimento mindful (Langer, 1989) suggeriscono che esso consiste nell'apertura alle novità, nell'attenzione alle differenze, nella sensibilità ai diversi contesti, in una consapevolezza implicita, se non esplicita, delle molteplici prospettive esistenti e nell'orientamento al presente. [...] ... useremo il qualificatore "apprendimento mindful" per riferirci alle importanti concettualizzazioni di Ellen Langer sul modo in cui la mente sembra liberarsi da conclusioni e categorizzazioni premature e da modi routinari di percepire e pensare. Quando abbiamo una certezza, sostiene Langer, «non sentiamo il bisogno di prestare attenzione. Ma dato che il mondo intorno a noi è in costante mutamento, la nostra certezza è un'illusione».29

Questa interessante convergenza ci permette di arricchire la nostra esplorazione della fabbrica immaginale, come luogo dove si apprende lavorando, facendo un "lavoro di trasformazione", secondo una filosofia della pedagogia legata alle necessità intime e sociali dell'uomo, come spiega Napolitano su Gehlen:

«C'è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è necessaria un' "immagine", una formula interpretativa».30 La necessità di un'interpretazione conduce il filosofo a pensare la sua antropologia come risposta latamente "pedagogica": a. riconduzione delle diverse ricerche delle scienze cosiddette "umane" e "biologiche" alla domanda fondamentale sul senso della nostra esistenza e della nostra appartenenza alla natura; b. avvertimento della ineludibilità di una "questione antropologica"; ed infine c. riscoperta del senso di un essere che vive costantemente come conflitto l'estraneità del mondo nel quale si trova a dover sopravvivere. Ma l'intento "pedagogico" gehleniano si rivela particolarmente diretto, infine, ad una nuova concezione della "socialità" umana, come sviluppo determinante della nostra natura. La domanda ... «circa se stesso significa: circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini; infatti anche il modo di trattare gli uomini dipende da come li si considera e da come si considera se stessi. Questo però vuol dire che l'Uomo deve interpretare la sua natura e perciò assumere un atteggiamento attivo e tale da prendere posizione rispetto a se stesso e rispetto agli altri».31

In una accezione neurobiologica dell'apprendimento, inseriamo una preziosa riflessione posta dal premio Nobel Eric Kandel32 sul coinvolgimento dell'inconscio nei meccanismi procedurali implicati nell'apprendimento e nelle memorie.

Di questi tre processi inconsci [Kandel si riferisce al concetto di inconscio utilizzato da Sigmund Freud in tre accezioni diverse secondo la rassegna su Freud di M. Solms, 1997: inconscio rimosso o dinamico; inconscio procedurale; inconscio preconscio, n.d.a.], solo l'inconscio procedurale, la parte inconscia dell'Io che non è rimossa o esposta a conflitti, appare risiedere in quella che i neuroscienziati chiamano memoria procedurale (per una posizione analoga vedi Lyons-Ruth, 1998). Questa importante corrispondenza tra neuroscienze cognitive e psicoanalisi è stata riconosciuta per la prima volta in un importante saggio di Robert Clyman (1991), che ha studiato il rapporto tra memoria procedurale ed emozioni e le sue implicazioni per il transfert e il trattamento. L'idea è stata sviluppata ulteriormente da Louis Sander, Daniel Stern e altri autori appartenenti al Boston Process of Change Study Group (1998), che hanno evidenziato come molti dei cambiamenti che fanno procedere il processo terapeutico durante l'analisi non rientrino nel dominio dell'insight cosciente, ma in quello della conoscenza (e del comportamento) procedurale, di natura non verbale e inconscia. Per rendere quest'idea, Sander (1998), Stern (1998) e collaboratori hanno proposto il concetto di momenti di significato – momenti, nell'interazione tra paziente e terapeuta, che rappresentano il raggiungimento di un nuovo assetto di ricordi impliciti, che consente alla relazione terapeutica di progredire ad un nuovo livello. Questo avanzamento non dipende da insight coscienti; non richiede, in altri termini, che l'inconscio diventi conscio. Piuttosto, i momenti di significato sono considerati in grado di produrre cambiamenti comportamentali tali da ampliare il repertorio di strategie procedurali del paziente, tanto nei modi di essere quanto nei modi di fare. Il progresso in queste categorie di conoscenza conduce a strategie di azione che si riflettono nei modi in cui la persona interagisce con gli altri, e quindi anche nel transfert.

Ci si deve domandare, alla luce di quanto sopra, come contribuisca l'apprendimento delle tecniche in Laboratorio delle Immagini, al cambiamento procedurale: cioè di come la produzione di immagini, ricordi, sogni provenienti ad esempio dalla memoria dichiarativa, seguita dall'esecuzione in una ricca esperienza33 formalizzante, possa svolgere una funzione di cambiamento attraverso il passaggio integrato alla memoria implicita, senza occorrenza di verbalizzazioni o interpretazioni al di là della constatazione del lavoro artistico, costituito anche dall'acquisizione di «nuove abilità motorie e percettive».34

Il ricordo di queste capacità – che oggi riconduciamo alla memoria procedurale o implicita – è completamente inconscio e si manifesta nell'esecuzione, non nel richiamo cosciente. Il ricorso congiunto ai due sistemi di memoria rappresenta la regola anziché l'eccezione. I due sistemi si sovrappongono e sono in genere usati di concerto; infatti, molte esperienze di apprendimento li attivano entrambi. Inoltre, una ripetizione continua può favorire il passaggio dalla memoria dichiarativa alla memoria procedurale. Per esempio, imparare a guidare un'automobile comporta all'inizio un ricordo cosciente, ma poi la guida diventa un'attività motoria automatica e inconsapevole. La memoria procedurale è costituita da un insieme di processi che coinvolgono diversi sistemi cerebrali: l'innesco della risposta (priming), vale a dire il riconoscimento di stimoli recentemente incontrati, che dipende dalla corteccia sensoriale; la percezione dei vari segnali affettivi, che coinvolge l'amigdala; la formazione di nuove abitudini motorie (e forse anche cognitive), che dipende dal neo striato; l'apprendimento di nuovi comportamenti motori o di attività coordinate, che risiede nel cervelletto. Diverse situazioni ed esperienze di apprendimento attivano diversi sottoinsiemi di questi o di altri sistemi di memoria procedurale, in combinazione variabile con il sistema della memoria esplicita, che risiede nell'ippocampo, e le relative strutture.35

A livello neuropsicologico, molte altre sono le dimensioni coinvolte nella produzione e nella fruizione dell'opera d'arte,e sono esperibili non solo in laboratorio, ma anche in un museo, in una chiesa, di fronte ad una particolare architettura urbana, e via dicendo.

Si pensi all'empatia e al suo "passare attraverso il corpo" riverberando negli assetti delle memorie implicite, ipotesi esposta da Daniela Ovadia,36 sorretta dal neurofisiologo Vittorio Gallese:37

«Diversi esperimenti hanno dimostrato che chi osserva l'opera entra in empatia con ciò che sta osservando. Questo sentimento può consistere nella semplice comprensione delle emozioni rappresentate oppure, più profondamente, in un senso di imitazione delle azioni raffigurate, cioè di immedesimazione dell'osservatore». Date queste premesse, i neurologi si sono chiesti quanto è rilevante l'empatia per l'esperienza estetica e quali sono i meccanismi neuronali coinvolti. Un tema non del tutto nuovo, dal momento che la stessa parola "estetica" (usata per la prima volta nel 1700 dal filosofo tedesco Alexander Baumgarten per definire la disciplina che studia la fruizione artistica) significa in greco "sensazione". Ciò che le neuroscienze hanno scoperto è che l'empatia non è «puramente intellettuale», ma passa attraverso il corpo: quando fissiamo un quadro o una scultura percepiamo fisicamente ciò che vi è rappresentato e lo «riproduciamo» attraverso la contrazione inconsapevole di determinati gruppi muscolari, esattamente quelli che usa il personaggio con cui ci identifichiamo. Questo fenomeno è dimostrabile registrando i potenziali elettrici nei muscoli nell'osservatore, e accade soprattutto quando si guardano figure sbilanciate, ferite, schiacciate o fisicamente costrette. «L'imitazione corporea diventa il veicolo dell'empatia emotiva, esattamente come accade nella vita reale quando i neuroni specchio si attivano in risposta al movimento di un altro individuo: la comprensione delle intenzioni, e quindi delle emozioni, passa attraverso la ripetizione del gesto a livello della corteccia cerebrale», continua Gallese, che ha dedicato parte delle sue attività di ricerca proprio allo studio delle basi neuronali della percezione estetica. [...] I neuroni sono in grado di attivarsi non solo vedendo un movimento ma anche sentendolo raccontare (come accade a chi legge un romanzo) e, in egual modo, sono capaci di farci provare empatia anche davanti a un'opera astratta o a un capolavoro architettonico. «Si possono avere risposte emotivamente cariche di empatia anche davanti a una colonna spiraliforme o a quadri astratti come quelli di Jackson Pollock, oppure persino davanti alle famose tele squarciate di Lucio Fontana. [...] L'artista è colui che sa evocare o sfruttare, consciamente o inconsciamente, i meccanismi dell'empatia e sa usare la conoscenza del corpo per elicitare proprio le risorse emotive e motorie mediate dai neuroni specchio».

L'approccio mindful è un modo di volgere lo sguardo alle dimensioni interiori, un metodo per sperimentare l'esperienza stessa, non una via per distogliere lo sguardo dal trauma o dall'angoscia, o per esimersi dalle riflessioni sulla storia e sulla propria storia, o per eludere la legge dell'esonero posta da Gehlen all'uomo "manchevole, carente" o peggio per ancorarsi ad una psicologia della salute ove vi sia posto solo per l'attuazione di un egoico presente star bene, facendo uso smodato di risorse prodotte da altri, al pari di droghe estetiche, al fine di non "sentire" il peso della condizione esistenziale. Tutt'altro: il laboratorio è un luogo ove, anche tecnicamente, è possibile «"s-gravarsi" del peso della situazione contingente in vista di una futura soluzione»38, dare corso ad una costruzione di senso, attualizzare «momenti di significato», progettando.

Questa necessità è esplorata da Enrico Borla ed Ennio Foppiani in Bricolage per un naufragio:39 «L'uomo deve trovare da se stesso degli esoneri (Entlastungen) con strumenti e atti suoi propri, cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi in vita»40, con la differenza che nel laboratorio la necessità di un esonero è visto come antecedente motivazionale a produrre una cosa tangibile nell'oggi e fruibile nel domani, anche da altri, e su cui lavorare a vari livelli: un'azione pianificante e in grado di incidere sulla realtà, senza cadere nella trappola utopica di un esonero dal corpo.

«L'esonero dal corpo, l'alleggerimento dalle pulsioni e dalle sensazioni per fuggire nella cultura, teorizzato da Gehlen, sembra tuttavia utopico, un lusso non sostenibile, e il bricoleur nella sua povertà di naufrago ancor meno può praticarlo».41

Il peso del passato talvolta può essere altrettanto gravoso del peso della «contingenza dell'abisso che ci circonda».42 Il lavoro su noi stessi dovrebbe aiutarci a mappare non tanto quella zona fluida alla Maqroll, quanto a mappare l'ambito delle modalità, dei punti di vista, delle strumentazioni di orientamento, per potersi muovere con un minimo di consapevolezza tra le topologie psichiche a disposizione, i vari approcci di teoria e metodo. Così Borla e Foppiani:

Quando l'uomo deve fare da sé, deve comprendere che deve farlo con un Sé che non gli è prescritto ma inscritto; è lui che deve svolgerlo, cercarlo inventarlo, riflettendo, provando, agendo, dialogando al di là di ogni conformismo. Questo agire, questo muoversi da naufrago del "già dato", è comunque un dibattersi in quel fondo oscuro della materia, che nulla riesce a dire se non un balbettio confuso a noi quasi inintelligibile. Benché i biologi evolutivi ci assicurino che il nostro apparato sensoriale e rappresentativo sia adeguato al mondo in cui viviamo, tanto da consentirci di sopravvivere, ci muoviamo spesso con la sensazione di avvoltolarci in un sogno in cui differiamo costantemente il risveglio. Risveglio che significherebbe renderci finalmente conto di ciò che è il mondo, a prescindere dal fatto che sia una nostra rappresentazione. [...] L'uomo si ritrova "gettato nel mondo", naufragato nella natura, in un mondo che in nulla gli appartiene, che non è fatto per lui e per il quale non è adatto, essendo esso forse il meno specializzato fra gli animali, e non esistendo in natura un ambiente unilateralmente determinato che possa accoglierlo. Eppure è anche l'unico essere vivente presente in ogni latitudine e longitudine di codesto mondo. Queste mancanze vengono, infatti, compensate dalla capacità che corrisponde alla più urgente necessità: il trasformare questa natura selvaggia – e cioè una qualche natura, in qualunque modo sia fatta – in modo che divenga utile alla sua vita. L'uomo, per Gehlen, fabbrica una cultura da bricoleur per sopperire alle proprie carenze, perché il mondo si configura come un continuo profluvio di stimoli esterni che lo sommergono, ai quali si vanno a sommare quegli stimoli interni, altrettanto destabilizzanti, che corrispondono alle tempeste delle pulsioni inconsce. Sia i primi che i secondi vengono considerati dall'antropologo tedesco come oneri così pressanti per l'animale uomo da mettere in dubbio le sue stesse possibilità di sopravvivenza. E' su questo impianto biologico fondamentale che s'innesta la necessità dell'Entlastung, la legge dell'esonero, perché, altrimenti, si sarebbe schiacciati dall'insormontabile peso degli oneri. L'uomo, agendo in virtù della sua attività previdente (o meglio attività modificante pianificata)43, è portato alla trasformazione attiva, in senso artificiale, della natura, all'esigenza di costruire per sé una "seconda natura" in cui egli possa sentirsi il padrone. Facendo questo l'essere umano procede per esoneri, cioè attraverso una progressiva presa di distanze dal mondo naturale e dalle proprie pulsioni, mettendo così in ordine e stabilizzando quegli stimoli interni ed esterni che altrimenti lo soffocherebbero.

«L'espressione "cervello mindful" è usata in questo approccio per segnalare che la nostra consapevolezza, il nostro "prestare attenzione o prenderci cura" in modo mindful, è intimamente connessa alla danza tra la nostra mente e il nostro cervello».44

Torna prepotentemente in gioco l'incertezza condizionale di Maqroll, cui si unisce una possibilità di ascolto e di un prendersi cura dalle risonanze antropologiche.

La gemmazione di un'immagine da mettere su tela, non è di destinazione diversa dalla gemmazione di un pensiero distruttivo. Il proliferare quindi di immagini e pensieri, può essere utilizzato come materiale da cui far emergere una "espressione" attraverso un'azione formalizzante simultanea. La fase di progettazione del lavoro, non deve essere preponderante rispetto alla realizzazione diretta, in quanto diventare una forma di allontanamento dal processo creativo.

Quando un partecipante o un gruppo prevede di dedicare più tempo a "pensare l'idea" che non a "realizzarla", nel nostro gruppo di lavoro tendiamo a sottolineare l'importanza creativa della fase di progettazione. A questo punto, il progetto stesso diventa il prodotto, il qui ed ora deve essere rispettato come regola non solo nel gesto di interpretare fisicamente l'atto trasformativo (vale a dire nel mentre stendo un colore acrilico per imitare Warhol mentre dipingo un mio sogno o strappo un brandello di stoffa dalla vecchia camicia di mia madre per una scultura alla Bourgeois), ma anche nella programmazione delle azioni. Il progetto in qualche modo costituisce sempre una "razionalizzazione", che se portata a livelli troppo dettagliati, rischia di diventare una griglia di ulteriori condizionamenti.

I tempi, quindi, del laboratorio, sono uno strumento fondamentale per attutire lo iato tra il tempo convesso del piano di realtà e il fondo concavo del tempo immaginale: attutire vale a dire addolcire, disilludere con il garbo della madre postulata da Winnicott, ma comunque porre in modo certo.

Pensiamo all'approccio di Giovanni Papotto in ambito di regia e drammaturgia, che è simile. Papotto sostiene, alla domanda di Stefano Magliole:45 «Scrittore e regista, come convivono in te questi due ruoli?»

Non convivono. Si guardano con sospetto, si tirano dei cazzotti, il più delle volte non si sopportano, e ogni tanto nutrono intenzioni omicide l'uno nei confronti dell'altro. Del resto, l'omicidio rituale, vuoi del regista vuoi dello scrittore, credo sia un presupposto irrinunciabile per potere lavorare sui propri testi come regista. In fase di scrittura non penso mai alla messa in scena, è unicamente il suono e il significato delle parole, i nessi e le strutture linguistiche a interessarmi. Quando poi il testo raggiunge gli attori e la scena, lo scrittore è già morto e sepolto. Solo così ci si può riavvicinare al proprio testo con persone che ne leggono inevitabilmente, e fortunatamente direi, significati e intenzioni a cui lo scrittore non aveva mai pensato nemmeno di lontano.46

Diventa quindi importante progettare con modalità mindful, imparando a fare del progetto un atto creativo. Un esempio è costituito da un portfolio di schizzi a matita corredati di appunti esplicativi, o da una raccolta di foto cui ispirarsi, o la preparazione di sequenze di un film, quindi di un progetto costruito per assemblaggio mosaicato di elementi destruenti e de-ostruenti: in questo modo, il processo metabolico è già avviato, e il processo di complessità è intrapreso a livello non di raffinate concettualizzazioni aprioristiche, bensì di agglomerati di elementi il cui sviluppo gestazionale dovrà essere sperimentato con l'eleganza del gesto generativo, perché come ha detto lo scultore Maurizio Rabino (Torino e Asti), «la creazione dell'opera d'arte è come lo staccarsi e il cadere del frutto dal suo albero».47

Anche la rottura dell'ordine simbolico, ad esempio nei lavori ispirati all'estetica cosiddetta del brutto, è frutto di un processo creativo che ha per poli ordinatori sia la bellezza che l'esperienza estetica, sebbene ricollocati in termini di nuove suggestioni, sempre finalizzate a trovare una legittimazione, un esser visti. Ci riferiamo in particolare alle riflessioni pubblicate su Psicoanalisi Neofreudiana da Ezio Benelli, nell'articolo "Gli irraggiunti. Un ritratto di Gunter Ammon"48. Nel lavoro in atelier, gli ordini messi in discussioni non sono ancorati al livello solo simbolico, ma anche percettivo, implicando nuove prospettive, neurosensoriale (come nella body art), spazio-temporale, con sovrapposizioni di scansioni nuove.

Come dice il Maestro Marco Becattini, scultore e orafo: «Il linguaggio dell'arte è sub-simbolico, non simbolico». Vale a dire, utilizza simboli in vario modo, li ricombina creando nuovi alleli, esplora dimensioni, ma l'artista si può muovere, per esercitare la libertà, in un universo, o in una costellazione, o tra costellazioni e universi, ove un archetipo, un filtro cognitivo o una gestalt risiedano a livelli ontologici.

Il connubio tra arte e psicologia forse si può fare come in tutte le storie degli amanti, che attraversano fasi alterne, divorzi, riconciliazioni, per conoscere meglio se stessi, e permettere al partner di appoggiarsi, di avere debolezze. Questo a parer mio si può realizzare al meglio se insieme alle riflessioni consensuali di arte e psicologia, si allestiscono equipe in cui siano presenti psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti, e artisti di rango, come altre occasioni di proficuo incontro tra questi professionisti. Citando Cristiano Burgio, attore di Teatro a Firenze e a Torino, «psicologia e arte possono stare insieme in una sorta di ispirazione reciproca». Burgio ha lavorato con il regista e scrittore Giovanni Papotto ad alcune opere di C. G. Jung, in particolare agli scritti sul sogno e sugli eventi sincronici. Esempio molto concreto di come psicologia analitica e arte drammatica abbiano trovato un palcoscenico in cui mostrare una possibile declinazione del loro rapporto: fraintendimenti e incomprensioni si alternano ad amplessi appassionati, qualche volta furtivi.

D'altro canto, molte volte i sentieri si sono sfiorati senza potersi incontrare in un destino dalla duplice appartenenza. Francesco Barale in "Tra sogno e musica: Klinger e Freud"49:

Da quel che almeno risulta dagli scritti, Freud e Klinger, pressoché coetanei (Freud nato nel 1856, Klinger nel 1857), si ignorarono reciprocamente. Nessuno dei due menzionò l'altro, ma, in nessuna occasione. La disattenzione può incuriosire, se si considerano alcune cose: l'importanza che Klinger attribuiva alla dimensione del sogno; il particolare contesto e il tessuto di frequentazioni, culturali ma anche personali, che Freud e Klinger condividevano; e, soprattutto, se si considera come proprio l'opera di Klinger si presti forse più di ogni altra a illustrare direttamente, quasi come un iperbolico manifesto, la funzione che Freud attribuiva alla "messa in forma" artistica: trasformare i contenuti inconsci della vita psichica e consentirne la raffigurabilità, rendendo tollerabile il perturbante e persino piacevole ciò che, fonte di angosce e conflitto, è normalmente sottoposto a rimozione e censura. [...]

Dobbiamo però uscire dalla strettoia del rimosso, che rimanderebbe al trauma riconfinando l'opera d'arte a procedimento di abreazione. E' molto altro, infatti. Freud ne era consapevole, ma talvolta la lettura di Freud diventa occasione per reinfilare obtorto collo la relazione psicologia-arte sotto la giurisdizione della psicoterapie mediate dall'arte che si serve necessariamente della lente nosografica.

È lo stesso Barale a posizionare Klinger (e quindi Freud, per conseguenza?) in quella zona "de-forme" di cui, con lo stile di Maqroll di Alvaro Mutis, anche il partecipante al laboratorio è avventore, ricostituendo una prospettiva mitica mercuriale.

Sogno e realtà, finzione e vita reale in Klinger continuamente si congiungono e si mescolano, «come non mai dai tempi di Hieronymus Bosch» (Buscaroli, 1996). E proprio il realismo più minuzioso è al servizio di una proliferazione di figure dell'immaginario, di personaggi mitologici o dell'iconografia classica, di tritoni, centauri, fauni, ninfe, elfi, animali e altri mostri che non stanno lì per alludere a una dimensione né "altra" né "alta", ma che abitano e incontrano "normalmente" le vicende, le passioni, le tragedie e le miserie quotidiane, il dolore di ogni giorno [corsivo mio, n.d.a.] a fianco di lavandaie, viandanti, amanti, contadini, borghesi, prostitute ... Se la molteplicità dei piani era un carattere della pittura simbolista, vi è inoltre in Klinger un sistematico sovrapporsi degli universi temporali. Esso sembra indicare come il tempo della vita psichica e la relativa intemporalità dell'inconscio continuamente sovvertano il tempo lineare, in una sorta di rappresentazione visiva iperbolica della freudiana Nachtraeglickeit, l'azione differita: il principio per cui presente, passato e futuro partecipano tutti a definire il senso dell'esperienza, sia presente che passata, e le esperienze successive riorganizzano il senso di quelle precedenti altrettanto di quanto le esperienze del passato contribuiscono a definire il senso del presente. Le convivenze di centauri e lavandaie, di figure della mitologia classica e di scene della vita quotidiana non sono dunque escamotages per suscitare meraviglia; così come non è una trovata allegorica che la grande Crocefissione di Lipsia (1890) sia ambientata da Klinger, appassionato dell'Italia come Freud, sulle colline senesi, né che San Giovanni abbia le sembianze di Beethoven. L'allegoria si fonde piuttosto con la vita, mostrando l'intreccio di antichità e futuro, sogno e veglia, mito e realtà che la compone. In poche altre occasioni, dunque, un intero opus artistico si presta quasi programmaticamente ad illustrarci quanti piani di senso si affollino e si ridefiniscano di continuo, l'uno attraverso l'altro, nello sguardo che incontra il reale; come questo sguardo rivesta, avvolga le cose, per usare le parole di Merleau-Ponty, «della sua carne». E come il tentativo di appropriazione dell'oggetto, di ricomporre la béance originaria che ci separa dal mondo, di rigenerare l'incontro con la realtà, ritrovandone l'essenza, che la creazione artistica ogni volta ripete, non possa risolversi che nel suo sempre rinnovato differimento: in una continua, reciproca trasformazione tra interno ed esterno, percezione e cosa, linguaggio e materia. Il vuoto che questa tensione apre nel reale si popola così di presenze equivoche, profili nascosti, ombre richiamate improvvisamente alla luce. Nel loro muto, interminabile dialogo la percezione svela il proprio carattere colale, la propria inesauribile relazionalità.

Se la vertigine creativa sorregge il viaggio dell'artista, l'utente di un atelier può dire di essere all'interno di un "processo creativo". Nel nostro laboratorio per le immagini l'arte è messa all'interno di un progetto insieme alla psicologia: un saper fare insieme oltre ad un sapere.

All'interno di questo processo può non solo apprendere nuove modalità di espressione del suo mondo interno, ma anche re-immettere, in una sorta di circolo virtuoso, risorse utili sia a portare conforto alla sofferenza generata dalle ferite, sia a generare consapevolezza nuova. La consapevolezza nuova che si genera all'interno del processo creativo è di per se vivificante perché consente di ri-progettare l'esistenza pur contemplando la dimensione della sofferenza, e di conseguenza questo processo può essere sia considerato un processo di "empowerment" sia un processo cosiddetto "competente".

Abbiamo più volte utilizzato il termine "lavoro" nella descrizione di questa sorta di "opus alchemico" all'interno del laboratorio, ed è pertanto per dovere di completezza ma anche per un debito di riconoscenza verso la Psicologia delle Organizzazioni che sento di dover esplicitare meglio questo aspetto.

Nell'ambito della psicologia del lavoro, vi sono correnti di pensiero che, se trattate in un pensare socio-antropologico, si coniugano per lo meno per la loro audace contemporaneità e la loro eleganza epistemologica, alle metodologie utilizzate sul campo da Marc Augé per indagare i comportamenti umani nei «"non-luoghi" della sur-modernità».50 Difatti, se pensiamo al "processo competente" di Antonio Capone51 illustrato all'Università di Firenze in un Seminario ospitato da Carlo Odoardi il 18 maggio 2009,52 ci accorgiamo di come sia possibile applicare questa concettualizzazione ai sistemi complessi delle organizzazioni e alle più "semplificate" catene di eventi all'interno di un contemporaneo laboratorio delle immagini. Capone sostiene, sulla base delle più recenti direttive mutuate dalla Comunità Europea,53 che vi sia una differenza sostanziale tra conoscenza, abilità e competenza54, e che il processo competente sia quel processo emergente, unico e originale di sviluppo di questi fattori, finalizzato a compiere un gesto organizzativo complesso, a produrre comportamenti competenti, in una condizione complessa, problematizzata e ricca di imprevisti fattuali, che siano eventi interni o percezioni dall'esterno.

Il Processo Competente
Grafico n. 1. Il Processo Competente. Antonio Capone, Confindustria, Grosseto.

Capone mette l'accento sulle differenze tra sapere, saper fare e agire personale di ciascuno. In particolare, facendo riferimento alle competenze:

La competenza è l'agire personale di ciascuno, basato sulle conoscenze e abilità acquisite, adeguato, in un determinato contesto, in modo soddisfacente e socialmente riconosciuto, a rispondere ad un bisogno, a risolvere un problema, a eseguire un compito, a realizzare un progetto. Non è mai un agire semplice, atomizzato, astratto, ma è sempre un agire complesso che coinvolge tutta la persona e che connette in maniera unitaria e inseparabile i saperi (conoscenze) e i saper fare (abilità), i comportamenti individuali e relazionali, gli atteggiamenti emotivi, le scelte valoriali, le motivazioni e i fini. Per questo, nasce da una continua interazione tra persona, ambiente e società, e tra significati personali e sociali, impliciti ed espliciti.

Inoltre, Capone sostiene che mentre nel sistema formale di apprendimento di conoscenze si abbia una modalità di «simulazione della realtà», l'apprendimento di competenze attraverso il lavoro richieda «l'intervento sulla realtà»; e che mentre l'esercizio è mera «esecuzione di una scoperta già fatta», e si riferisce quindi alle abilità, il problema è sempre riferito alla competenza in quanto esige «una scoperta» da farsi.

Nell'ambito di questa concettualizzazione, campo di osservazione, metodo, oggetto della ricerca è sempre il "lavoro", il processo di "lavoro", il processo quindi di esercizio (e non di possesso) delle competenze.

I rimandi e le convergenze, quindi emergono con forza e potente impeto unificatore, in una sorta di processo competente ante litteram. Infatti, muovendoci con il sistema concettuale di Capone e Odoardi, e facendo riferimento a Capone quando dice:

Nel momento in cui tematizzo, genero un problema, pongo un problema, genero un apprendimento solo per questo: intendendo quindi con apprendimento qualcosa che non è la somma, l'immissione di qualcosa che prima non avevo, ma creo un nuovo contesto, una nuova realtà idonea tra situazione esterna e conoscenze/abilità dell'individuo: prima non c'era la soluzione, non c'era la tematizzazione, ma solo l'esecuzione.

Non sono costrutti slegati, ad esempio, dal concetto di «cambiamento di "strategie procedurali" tanto nei modi di essere quanto nei modi di fare» messe in correlazione da Kandel nei processi di cambiamento degli assetti di memoria.

Dobbiamo essere consapevoli di aver esercitato molta libertà nel mettere insieme tanti aspetti così, apparentemente, lontani delle discipline psicologiche. Ma questo sforzo è necessario, anzi è condicio sine qua non, perché è improbabile saper "elicitare risorse" se non si tenta di farlo in termini di impostazione e di approccio, se non si è sufficientemente calati nell'esperienza rischiosa sul limitare del non-luogo.

Di fatto molti utenti accedono all'Atelier proprio per sviluppare risorse creative, sotto la guida di un professionista (o più frequentemente di un gruppo di operatori), e pertanto sono legittimati a non sapere di poter accedere alle proprie risorse. Il che in un laboratorio artistico non è, almeno apparentemente, una condizione vantaggiosa di partenza. D'altro canto, Alfred Kubin ha detto:

«Il vero fruitore, così come io lo desidero, dovrà guardare i miei fogli non solo apprezzandoli e criticandoli, ma come animato da sensazioni segrete, dovrebbe rivolgere la sua attenzione anche alla ricchissima camera oscura della propria coscienza onirica».55

In qualche modo, bisogna essere disponibili a stare nell'arte. Non solo gli utenti, che siano pazienti o partecipanti, ma anche i conduttori, i collaboratori: anche l'addetto alle pulizie nel laboratorio delle immagini non può non essere coinvolto nel generare processi competenti, dal momento che potrebbe pensare che sia "rifiuto" quell'accumulo di barattoli ammaccati e strofinacci sfilacciati miracolosamente tenuto insieme a formare una installazione.

«Le persone si sentono, si percepiscono si avvicinano o si allontano a vicenda ... destinate a camminare insieme quali componenti di un fenomeno continuo ... nella costante percezione e nell'adattamento agli altri».56

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NOTE DI CHIUSURA

  1. James Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore (1979), Adelphi, Milano 2002, pp. 70-73
  2. Il "Laboratorio delle Immagini" è sito presso gli Studi del Centro di Psicologia e Psicoterapia di Prato, sotto il coordinamento scientifico-culturale della International Foundation Erich Fromm, www.ifefromm.it
  3. Aldo Carotenuto, Lettera ad un apprendista stregone, Saggi Bompiani, Milano 1998, p. 6 e segg.
  4. Donald Kalsched, Il mondo interiore del trauma, Moretti&Vitali, Bergamo 2001
  5. Seminario Residenziale di Psicoterapia di Gruppo, Centro Studi Psicodinamiche Torino, 1995
  6. Enrico Borla, Ennio Foppiani, Losfeld. La terra del Dio che danza, Moretti&Vitali, Bergamo 2005
  7. Graziella Magherini, "Un modello della fruizione artistica", in Mi sono innamorato di una statua. Oltre la sindrome di Stendhal, Unicomp L.E., Firenze 2007, pp. 71-115
  8. Donald W. Winnicott, "La psicosi e l'assistenza al bambino", in D.W. Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi (1956), Martinelli, Firenze 1975
  9. Karl Jaspers, Genio e Follia, Cortina, Milano 2001, p.IX prefazione di Umberto Galimberti
  10. Fulvio Palazzolo, in Maqroll il Gabbiere. Il disordinato frequentatore di sogni, in Voci in Corpo 12 - Radure. Quaderni di Materiale Psichico, volume I, anno VII, 2003, pp. 31-47
  11. Alvaro Mutis, La neve dell'ammiraglio, Einaudi 1990, p. 125; citazione di Fulvio Palazzolo, ibidem
  12. Fulvio Palazzolo, ibidem
  13. Louise Bourgeois in Paulo Herkenhoff, San Paulo 1996, citazione di Pandora Tabatabai Asbaghi, Louise Bourgeois Studio 2006, p. 11
  14. Louise Bourgeois in Deborah Wye e Carol Smith, New York 1994, citazione di Pandora Tabatabai Asbaghi, Louise Bourgeois Studio 2006, p. 11
  15. Louise Bourgeois, ibidem. In un'altra traduzione, la Bourgeois direbbe più esattamente "L'arte è una garanzia di equilibrio mentale"
  16. Louise Bourgeois, ibidem
  17. Renato Diez in "Louise Bourgeois. Dai Personnages alle Cells più recenti. Settant'anni di carriera a Capodimonte. In lotta coi capolavori antichi", in Arte – Mensile di Arte, Cultura, Informazione. Novembre 2008, p. 126 e segg.
  18. Antonio Capone, Il concetto di Competenza. Definizioni metodi e strumenti per l'implementazione e la valutazione delle competenze, Seminario all'Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Psicologia, 18 maggio 2009.
  19. vedi più avanti nell'articolo
  20. Giuseppe Rombolà Corsini, Psicologo e Psicoterapeuta al Centro di Prato. Gruppo Maratona di Psicoterapia del 23 maggio 2009
  21. Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini, Arte e Cervello, Zanichelli, Bologna 1995, p. 55, 62, 65 e segg.
  22. «Questa suddivisione di MacLean, vista alla luce delle conoscenze moderne, è senza dubbio troppo semplificata e quindi non del tutto corretta, ma dà un'idea efficace della distribuzione delle funzioni cerebrali ai diversi livelli del sistema nervoso centrale». (Maffei e Fiorentini, p. 59).
  23. Christine Bader, Art Consultant, Lugano, in Louise Bourgeois. Scultura e opere grafiche. Louise Bourgeois Studio 2006, p. 5
  24. Lamerto Maffei e Adriana Fiorentini, ibidem, p. 67
  25. Daniel Siegel, Mindfulness e Cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. VIII e segg.
  26. Tich Nath Nanh, Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini Editore, Roma 1992, p. 22, citazione di Gherardo Amadei in Siegel, Cortina 2009
  27. Vedi per esempio Baer, R.A., Carmody, J. "Relationship between mindfulness practice and levels of mindfulness, medical and psychological symptoms and well-being in a mindfulness-based stress reduction program", in Journal of Behavioral Medicine, 2007; Brown, K.W., Ryan R.M., "The benefits of being present: Mindfulness and its role in psychological well-being", in Journal of Personality and Social Psychology, 84, 4, 2003, pp. 822-848.
  28. Daniel Siegel, Mindfulness e cervello, Cortina, Milano 2009, p. 6
  29. Irene Battaglini, Atti del Convegno Modelli per una Base Sicura, Novembre 2008, in corso di stampa
  30. Daniel Siegel, ibidem, pp. 14-15
  31. Arnold Gehlen, L'Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), Milano, Feltrinelli, 1983, p. 35, in Arnold Gehlen, a cura di Luigi Napolitano, www.filosofico.net/arnoldgehlen.htm
  32. Arnold Gehlen, ibidem, in Arnold Gehlen, a cura di Luigi Napolitano, www.filosofico.net/arnoldgehlen.htm
  33. Eric R. Kandel, Psichiatria, Psicoanalisi e Nuova Biologia della Mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, pp. 75-122, tratto da Eric R. Kandel, "La biologia e il futuro della psicoanalisi. Una rilettura di "Un nuovo contesto intellettuale per la psichiatria", American Journal of Psychiatry, 156 (4), 1999, pp. 505-524
  34. L'aggettivo "ricco" viene utilizzato nell'accezione opposta di "povero", quando si dice di un ambiente di crescita, riferendosi al campo semantico di quelle qualità che contraddistinguono non già il ricco e il povero in termini economico-finanziari, ma un humus culturale dato dal laboratorio delle immagini in termini di stimoli, di eventi, di processi, condizioni vantaggiose, di caregivers sufficientemente buoni: in altre parole, il laboratorio non può essere scarno di strutture e strumenti per poter ospitare il partecipante
  35. Eric R. Kandel, ibidem
  36. Eric R. Kandel, ibidem
  37. Daniela Ovadia, "Arte allo specchio", Mente&Cervello, n. 50 anno VII, febbraio 2009, pp. 56-61
  38. Vittorio Gallese, neurofisiologo dell'Università di Parma e membro del gruppo di ricerca guidato da Giacomo Rizzolatti, in Daniela Ovadia, ibidem
  39. Arnold Gehlen, a cura di Luigi Napolitano, www.filosofico.net/arnoldgehlen.htm
  40. Enrico Borla, Ennio Foppiani, Bricolage per un naufragio. Alla deriva nella notte del mondo, Moretti&Vitali, Bergamo 2009
  41. Enrico Borla, Ennio Foppiani, ibidem, p. 99 e segg.
  42. Enrico Borla, Ennio Foppiani, ibidem
  43. Enrico Borla, Ennio Foppiani, ibidem
  44. Arnold Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983 in Enrico Borla, Ennio Foppiani, ibidem
  45. Daniel Siegel, ibidem, p. 11
  46. Stefano Magliole, http://www.ghigliottina.it/profili/magliole.htm
  47. Giovanni Papotto nell'intervista "Un occhio ‘quasi' esterno sul teatrale" concessa a Stefano Magliole per Ghigliottina. Un nuovo taglio all'informazione, ANNO II Num. 12 del 24 Marzo 2008 http://www.ghigliottina.it/cultura/080324magliole.htm
  48. Maurizio Rabino, 1997, comunicazione personale
  49. Ezio Benelli, "Gli irraggiunti. Un ritratto di Gunter Ammon", Psicoanalisi Neofreudiana, Anno XX n. 8, 2008
  50. http://www.ifefromm.it/rivista/2008-xx/4/index.php
  51. "Tra sogno e musica. Klinger e Freud", di Francesco Barale, in La lente di Freud. Una galleria dell'inconscio, Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano 2008, p. 187
  52. Alessandra Funari, "I 'non-luoghi' come spazi della surmodernità", www.ariannaeditrice.it, 10/03/2007 www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=9436

    Marc Augè nasce a Parigi nel 1935, etnologo di formazione africanista e come tale abituato all'analisi sul campo, Direttore all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales de 1985 al 1995; Direttore di ricerca al ORSTOM fino al 1970, poi professore all' EHESS di Parigi, ha effettuato molte missioni in Africa, principalmente in Costa d'Avorio e nel Togo. Dalla metà degli anni 1980, ha differenziato i relativi campi dell'osservazione, in particolare compiendo parecchi soggiorni in America Latina per poi optare all' osservazione della realtà del mondo contemporaneo nel relativo ambiente più immediato. Nel 1987 ad un incontro tenutosi al Museo di Arti e Tradizioni popolari, già si trovava una convergenza fra gli etnologi delle società primitive e quelli delle società complesse, nel riconoscere all'antropologia un soggetto di studio del "qui" e "dell'ora", non confondendo la questione del metodo con quella dell'oggetto.
    Nel 1992 Augè inizia ad applicare gli strumenti dell'etnologia allo studio del mondo contemporaneo, nei suoi testi, riporta un problema capitale dell'antropologia teorica cioè se il suo studio fosse limitato ai popoli primitivi o fosse indirizzato anche alle società complesse, ossia, nell'applicazione degli strumenti analitici e teorici della disciplina alle condizioni della vita culturale presente. Mette in atto un tentativo di lettura del mondo contemporaneo in cui la globalizzazione viene percepita in Occidente alla luce del modo in cui i popoli coloniali si rappresentarono all'epoca dell'incontro con i colonizzatori; tramite il confronto basato sulla percezione del tempo, dello spazio e dell'identità che popoli colonizzati di ieri e popoli occidentali di oggi hanno elaborato in due momenti diversi, ma caratterizzati da crisi di tipo analogo: fine del senso della storia, impressione di un restringimento dello spazio, sensazione di un destino individuale svincolato da un progetto collettivo, Augè giunge a mettere in rilievo la dimensione cosmopolita dell'antropologia nell'epoca attuale. [1]

    Questi tentativi che in maniera precisa cercano di individuare i campi della pratica e della riflessione antropologica non vanno disgiunti dalle etnografie, le quali non dovrebbero soltanto avere come soggetto gli scambi, gli intrecci i rapporti, i processi di risignificazione a cui, nel mondo attuale, gli "incontri tra culture" danno luogo; ma avere il compito di esplorare mediante gli strumenti concettuali ed analitici della disciplina antropologica, i rapporti di forza e di gerarchia, di sfruttamento e di mimesi culturale cui questo incontro tra culture danno luogo. Importante per Augè, i casi in cui tali processi si manifestino all'interno delle culture stesse, le quali vengono sempre più coinvolte in un processo globale sottoposto alla logica della contemporaneità.

    Entrambi i concetti di Marc Augè surmodernité e non-lieux vengono trattati nel suo libro: Nonluoghi, introduzione ad una antropologia della surmodernità, del 1992. Qui l'autore tratta entrambi i termini da lui coniati dopo lo studio della società contemporanea. Per giungere al concetto dei nonluoghi, l'autore delinea il concetto di surmodernità inscindibile da quello di nonluogo, poiché spiega e così si differenzia da altri concetti di nonluogo espressi da autori come Michel de Certeau. La surmodernità è il concetto alla base dell'analisi di Augè, si tratta di una nuova modernità che ha sostituito quella precedente del XVIII e XIX secolo per le sue caratteristiche di esasperazione e complicazione della realtà, del tempo e dello spazio; ciò che contempla lo spettatore della modernità, è l'embricatura dell'antico e del nuovo, mentre la surmodernità fa dell'antico e della storia uno spettacolo specifico. "La surmodernità sarebbe l'effetto combinato di un'accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini" [2], questi i tre punti base substrato concettuale sul quale sono affrontate tutte le disquisizioni. Augè ci spiega come è possibile verificare quotidianamente che la storia accelera e che ciò è possibile se si guarda il tempo da un punto di vista banale, semplice; per lui la storia è "quell'insieme di eventi riconosciuti da molti come tali" a cui si legano immagini o circostanze particolare, l'insieme di queste sarà poi alla lettura dello storico per scrivere la storia e a chi la vive di accorgersi che la stà "scrivendo". Dunque l'"accelerazione" della storia corrisponde ad una moltiplicazione di avvenimenti il più delle volte non previsti da sociologi o storici; la moltiplicazione come sovrabbondanza di avvenimenti e di informazione e delle interdipendenze inedite di ciò che oggi alcuni definiscono "sistema "mondo", pone agli storici un problema di natura antropologica, quello del "sovrainvestimento di senso", cioè il bisogno quotidiano che proviamo esplicitamente nel dare un senso al mondo, il quale costituisce il riscatto di questa sovrabbondanza d'avvenimenti, "corrispondente ad una situazione definibile surmodernità per rendere conto della sua modalità essenziale: l'eccesso" [3]. Cambiamenti pratici nell'ordinamento della vita sociale sono comportati anche dalla coesistenza di quattro generazioni anziché tre, ciò estende la memoria collettiva, genealogica e storica.

    La seconda caratteristica della surmodernità è lo spazio, altro eccesso che presenta come correlazione il restringimento del pianeta, "i nostri primi passi nello spazio riducono il nostro spazio ad un punto infimo" [4]. [...]

    Dunque la sovrabbondanza spaziale del presente si esprime in mutamenti di scala, nella moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e immaginari e nelle spettacolari accelerazioni dei mezzi di trasporto; porta a modificazioni fisiche considerevoli: concentrazioni urbane, trasferimenti di popolazione e moltiplicazione dei nonluoghi, in opposizione alla nozione sociologica di luogo associata da Mauss a quella della cultura localizzata nel tempo e nello spazio. I nonluoghi diventano la necessaria installazione per la circolazione accelerata delle persone e dei beni, quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali, i campi profughi dove si installano i rifugiati del pianeta.

    Terzo punto dell'eccesso Augè lo associa all'ego ossia all'individuo, in una società in cui i riferimenti dell'individuazione collettiva sono mancanti, la produzione individuale di senso diviene quanto mai necessaria; [...] Il luogo è definito da tre caratteristiche principali: è identitario cioè tale da contrassegnare l'identità di chi ci abita; è relazionale ossia individua i rapporti reciproci tra i soggetti in funzione di una loro comune appartenenza; è storico ricorda all'individuo le proprie radici. Quindi uno spazio che non può definirsi come identitario, relazionale e storico viene definito nonluogo; "... sono dei nonluoghi, nella misura in cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie" [6].

    L'ipotesi sostenuta da Augè che la surmodernità risultante simultaneamente dalle tre figure dell'eccesso trova naturalmente la sua espressione completa nei nonluoghi che sono lo "spazio" della surmodernità, spazio segnato da una contraddizione: ha a che fare con individui solo quando sono identificati, socializzati e localizzati solo all'entrata e all'uscita. Augè definisce i luoghi e i nonluoghi due polarità sfuggenti, poiché il primo non si cancella mai totalmente ed il secondo non è mai compiuto totalmente, la distinzione tra i due passa piuttosto attraverso l'opposizione del luogo con lo spazio; l'autore per spiegare questa opposizione si serve dell'analisi di Michel de Certeau il quale parla di "nonluogo" ma per alludere ad una sorta di qualità negativa del luogo a se stesso impostagli dal nome che gli viene dato; precisa de Certeau che ogni itinerario è in qualche modo deviato dai nomi che gli danno "sensi fino a quel momento imprevedibili" ed ancora "questi nomi creano il nonluogo nei luoghi; li mutano in passaggi". [7] Prosegue nella sua analisi Augè chiarendo le due realtà in oggetto che sono complementari e distinte e cioè gli spazi costituiti in rapporto a certi fini: trasporto, transito, commercio, tempo libero e il rapporto che gli individui intrattengono con questi spazi. I quali se in parte si sovrappongono non si confondono mai poiché i nonluoghi mediatizzato tutto un insieme di rapporti con sé e con gli altri che derivano dai loro fini solo indirettamente, "se i luoghi antropologici creano un sociale organico, i nonluoghi creano una contrattualità solitaria". Le parole sono la mediazione che stabilisce un legame tra un nonluogo e gli individui, il "peso delle parole", alcune delle quali traendo dal patrimonio conoscitivo di base di ogni individuo diventano evocative di significati più vasti; così ad esempio l'autore cita luoghi che non esistono se non nelle parole che li evocano, stereotipi; la parola qui non scava uno scarto fra funzionalità quotidiana e il mito perduto, crea l'immagine, produce il mito e allo stesso tempo lo fa funzionare. 50 [1] Ugo Fabietti – Storia dell'Antropologia, II ed.2001 50 [2] Marc Augè – Rovine e macerie. Il senso del tempo, 2004 50 [3] [4] [5] [6] Marc Augè – I nonluoghi, introduzione ad un'antropologia della surmodernità, 1993 50 [7] Michel de Certeau, L'invention du quotidien, 1990
  53. Antonio Capone, Direttore di Confindustria Grosseto e già direttore dell'ente pubblico di ricerca ISFOL, L'Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori
  54. Corso di Psicologia dell'Imprenditorialità, dell'Innovazione e dei Sistemi Integrati, Prof. Carlo Odoardi, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Psicologia, Febbraio-Maggio 2009
  55. Direttiva Europea Dicembre 2006: Gli stati membri devono garantire lo sviluppo di "competenze di cittadinanza" per tutti i cittadini
  56. Antonio Capone, Il concetto di Competenza. Definizioni metodi e strumenti per l'implementazione e la valutazione delle competenze, Seminario all'Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Psicologia, 18 maggio 2009.

    Le conoscenze rappresentano il sapere che costituisce il patrimonio di una cultura; sono un insieme di informazioni, nozioni, dati, principi, regole di comportamento, teorie, concetti codificati e conservati perché ritenuti degni di essere trasmessi alle nuove generazioni. Le conoscenze sono ordinate, nelle Indicazioni nazionali, per "discipline" e per "Educazione alla Convivenza civile" e costituiscono, unitamente alle abilità, gli "obiettivi specifici di apprendimento".

    Le abilità rappresentano il saper fare che una cultura reputa importante trasmettere alle nuove generazioni, per realizzare opere o conseguire scopi. È abile colui che non solo produce qualcosa o risolve problemi, ma colui che conosce anche le ragioni di questo "fare", sa perché, operando in un certo modo e rispettando determinate procedure, si ottengono determinati risultati. Come le conoscenze, sono ordinate, nelle Indicazioni nazionali, per "discipline" e per "Educazione alla Convivenza civile" e costituiscono, con esse, gli "obiettivi specifici di apprendimento" che i docenti trasformano in obiettivi formativi.

    La competenza è l'agire personale di ciascuno, basato sulle conoscenze e abilità acquisite, adeguato, in un determinato contesto, in modo soddisfacente e socialmente riconosciuto, a rispondere ad un bisogno, a risolvere un problema, a eseguire un compito, a realizzare un progetto. Non è mai un agire semplice, atomizzato, astratto, ma è sempre un agire complesso che coinvolge tutta la persona e che connette in maniera unitaria e inseparabile i saperi (conoscenze) e i saper fare (abilità), i comportamenti individuali e relazionali, gli atteggiamenti emotivi, le scelte valoriali, le motivazioni e i fini. Per questo, nasce da una continua interazione tra persona, ambiente e società, e tra significati personali e sociali, impliciti ed espliciti.
  57. Alfred Kubin, cit. da Paul Flora, Un pescatore nell'al di là. Omaggio a Kubin, in "Alfred Kubin: un sognatore a vita", di Simona Argentieri, in La lente di Freud. Una galleria dell'inconscio, Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano 2008, p. 231
  58. Louise Bourgeois in Jerry Gorovoy e Pandora Tabatabai Asbaghi, Louise Bourgeois, Blue Days and Pink Days (Fondazione Prada, Milano 1997), citazione di Pandora Tabatabai Asbaghi, Louise Bourgeois Studio 2006, p. 11
senza titolo LDI Computer Grafica su fotografia digitale
immagine n. 4 – "Senza Titolo". LDI, Computer Grafica su fotografia digitale
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