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L'INTERPRETAZIONE FROMMIANA DEL SOGNO

Dott.ssa LINA ISARDI
Psicologa - Psicoterapeuta
Specialista in Psicologia
Specialista in Psicoterapia

Abstract

This essay is a critical evaluation of Fromm's interpretation of dreams as outlined in The Forgotten Language (1951). The author stresses the influence of Jung's thinking on Fromm's, pointing out the reasons that make Freud's position unacceptable for him. The author, however, emphasizes the limits of Fromm's anschaung, which is deeply conditioned by his uncritical acceptance of the myth of the noble savage. The author considers that while Freud's position is dogmatic and highly restrictive, and Jung's archetypical interpretation is equally dogmatic and quite untenable, nonetheless Fromm's position is overly optimistic and unfair to some of Freud's greatest intuitions. The core of the problem is the relationship between nature and civilization and between civilization and culture. The author sides with Freud in thinking that, ultimately, the discontents of civilization are perhaps unpleasant and uncomfortable, but inevitable.

 

Key words:

Fromm; interpretation; dreams.

 

Abstract

Questo saggio affronta criticamente il problema dell'interpretazione frommiana dei sogni come appare delineata in The Forgotten Language (1951). L'autrice sottolinea l'influenza del pensiero Junghiano su Fromm, mettendo in evidenza le ragioni per cui Jung riteneva inaccettabile la posizione di Freud. L'autrice comunque si sofferma sui limiti dell'interpretazione frommiana che appare fortemente condizionata dalla sua fideistica accettazione del mito del buon selvaggio. Se la posizione di Freud può definirsi dogmatica e fortemente limitativa, se l'interpretazione junghiana fondata sul mito di archetipi appare ugualmente dogmatica e del tutto insostenibile, la posizione di Fromm è eccessivamente ottimistica e poco obiettiva nei confronti di alcune delle più grandi intuizioni di Freud. Il nucleo del problema è il rapporto tra lo stato di natura e la civiltà e la civiltà e la cultura. L'autrice condivide piuttosto la posizione freudiana nella condizione che, in ultima analisi, le frustrazioni della civiltà sono forse spiacevoli e dolorose ma anche inevitabili.

 

Parole chiave:

Fromm; interpretazione; sogni.

 

 

L'INTERPRETAZIONE FROMMIANA DEL SOGNO

All'interpretazione del sogno, Fromm dedica uno dei suoi lavori più interessanti, Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti, uscito in inglese con il titolo The forgotten language, nel 1951. Noi ci serviremo della traduzione italiana, edita da Bompiani nel 1962.

La tesi di Fromm è che sogni e miti sono espressi nello stesso linguaggio simbolico: "I sogni dell'uomo antico e moderno posseggono le stesse caratteristiche dei miti i cui autori vissero agli albori della civiltà". Come nel mito, anche nei sogni si verificano situazioni drammatiche impossibili in un mondo retto dalle leggi del tempo e dello spazio. "La maggior parte dei nostri sogni ha una caratteristica in comune: essi non seguono le leggi della logica che invece regolano i nostri pensieri quando siamo svegli. Le categorie di spazio e tempo sono trascurate. Nei nostri sogni diventiamo i creatori di un mondo in cui lo spazio e il tempo, che pongono dei limiti a tutte le attività del nostro corpo, non hanno più potere" (pp.8-10).

L'insistere sul valore fortemente simbolico del sogno testimonia la pressante influenza di Jung su Fromm. Se infatti il sogno ha un valore simbolico, è ovvio che esso ha un fondamento di razionalità e non è semplicemente, come aveva affermato Freud, la manifestazione di idee e sentimenti repressi "di cui non permettiamo a noi stessi di renderci conto quando abbiamo pieno controllo dei nostri pensieri, ma che trova vita ed espressione durante il sonno" (p.55). Per Freud, infatti le forze che determinano i nostri sogni sono i nostri desideri irrazionali, perché nel sonno il controllo della nostra coscienza è indebolito, ciò permette una soddisfazione allucinatoria di pulsioni irrazionali, esattamente come avviene nel processo primario. Questo è tanto vero che Freud afferma che queste tendenze irrazionali (soddisfatte nel sogno) sono radicate nella prima infanzia (non sarà inopportuno ricordare che per Freud il bambino è un essere irrazionale).

Come è noto, l'interpretazione dei sogni rappresentò un punto nodale di frizione fra Freud e Jung. Lasciando da parte la conclamata necessità di una interpretazione anagogica (e perciò razionale) dei sogni affermata da Herbert Silberer, rimane fondamentale la distinzione junghiana fra funzione retrospettiva e funzione anticipatrice del sogno, che non solo rappresenta ed interpreta desideri del passato, ma è orientato verso il futuro indicando gli scopi programmatici del sognatore. È infatti la psiche che crea essa stessa il proprio futuro. L'istanza dell'interpretazione anagogica fu portata avanti da Jung nell'intento di trovare un compromesso con il maestro, ma Freud, come è noto, rimase fermo nella sua posizione che l'unica interpretazione possibile dei sogni era la realizzazione di un desiderio inconscio e pertanto irrazionale e quindi conseguentemente infantile. Come spesso accade, il rifiuto del maestro portò Jung su posizioni diametralmente opposte e ad insistere nell'affermazione che il sogno rappresenta sostanzialmente la saggezza dell'inconscio, il quale è capace di un'intelligenza ed una finalità di molto superiori a quelle della coscienza.

Fin qui Fromm condivide la posizione di Jung. Ma Jung era andato molto più oltre, affermando che la saggezza della coscienza è un fenomeno fondamentalmente religioso e che la voce che parla nei nostri sogni non è la nostra, ma proviene da una fonte che trascende noi stessi. Fromm saggiamente, rifiuta questa posizione estrema e dogmatica di Jung perché "se è vero che spesso siamo più saggi e più onesti nel sonno che nella nostra vita da svegli" questo fenomeno non si spiega supponendo l'esistenza di una fonte di rivelazione che trascende noi stessi. "I pensieri che si rappresentano nel sogno sono i nostri e ci sono buoni motivi per giustificare il fatto che le influenze a cui siamo soggetti durante la nostra vita da svegli esercitano sotto molti aspetti, l'effetto di invalidare le nostre realizzazioni intellettuali e morali" (p. 95).

Quindi, se per Freud i sogni sono l'espressione della natura irrazionale e asociale dell'uomo e per Jung rilevazione di una saggezza inconscia che trascende l'uomo, Fromm sembra inclinare per una terza ipotesi, per cui i sogni esprimono ogni genere di attività mentale e cioè tanto gli impulsi irrazionali che la nostra ragione e la nostra moralità. Giustamente, Fromm ricorda che questi principi non sono affatto nuovi e che si ritrovano in tutte le culture occidentali e anche non occidentali dai greci in poi ( ricordiamo, a questo punto, che Platone, nella Repubblica sostiene una tesi quasi identica a quella di Freud, quando afferma che "in tutti noi è insito l'istinto della bestia selvaggia e senza legge che affiora durante il sonno").

Fondamentale per capire la teoria dei sogni di Fromm è la sua definizione della struttura del linguaggio simbolico. Come tutti i non linguisti, Fromm opera un'ingenua distinzione fra linguaggio simbolico e linguaggio articolato, come se il linguaggio articolato (e cioè la lingua) non fosse anch'esso un linguaggio simbolico. Altra banalità in cui cade Fromm è l'osservazione che la lingua è insufficiente a simbolizzare la realtà in genere e la realtà emotiva in particolare (p.15). Del resto, Fromm stesso cade in contraddizione quando, due pagine dopo, considera la lingua ("il linguaggio di tutti i giorni") come un esempio di linguaggio simbolico.

A parte questo è interessante, dal punto di vista psicologico, la distinzione che egli fa fra tre tipi di simboli: il convenzionale, l'accidentale e l'universale, e la decisa affermazione, che noi condividiamo, che "soltanto gli ultimi due tipi di simboli esprimono le esperienze interiori come se fossero esperienze sensoriali", mentre non possiamo accettare l'affermazione che solo essi posseggono gli elementi del linguaggio simbolico. Infatti, come abbiamo detto, anche la lingua articolata è un linguaggio simbolico, e se è verissimo, come egli afferma, che non esiste relazione fra la parola "tavolo" e l'oggetto "tavolo", come del resto è implicito nel concetto saussuriano dell'assoluta arbitrarietà del segno linguistico, non è meno vero che questo è incontestabile a livello di "langue", ma assolutamente falso a livello di "parole" perché il segno linguistico concretamente usato ha infatti delle valenze psicologiche, anche pesanti (chi non conosce la teoria freudiana dei lapsus o quella Junghiana dei processi associativi?), come del resto Fromm stesso contraddicendosi riconosce (p. 18).

Comunque, è del tutto accettabile il punto di vista che il simbolo convenzionale, linguistico o no, è solo un'associazione durevole generalmente accettata: si potrebbe meglio dire che è un fatto sociologico e non psicologico, come la langue nei confronti della parole. Diverso è il caso del simbolo accidentale, il quale ha in comune con il simbolo convenzionale, l'assoluta assenza di una relazione con quello che simbolizza, ma che ne è esattamente l'opposto in quanto, se avviene che "una persona abbia avuto una triste esperienza in una certa città, ogni qualvolta sentirà il nome di questa città assocerà facilmente tale parola ad uno stato di tristezza", anche se "è evidente che la città di per se stessa non ha niente di triste o di allegro" (pp. 18-19). Potremmo qui aggiungere che, come il simbolo convenzionale è un fatto sostanzialmente sociologico, il simbolo accidentale è un fatto psicologico, anche se un simbolo convenzionale può acquisire una valenza psicologica se questa gli viene assegnata dall'individuo.

Definiscesi invece simbolo universale quello in cui "esiste una relazione intrinseca fra il simbolo e ciò che esso rappresenta" (p.19). I simboli universali sono legati ad esperienze collettive, alcuni ad esperienze comuni a tutti gli esseri umani, come l'acqua, il fuoco, il sole, la luna, il cielo, le stelle, ecc. "Il simbolo universale è l'unico in cui la relazione fra il simbolo e ciò che viene simbolizzato non è coincidente ma intrinseca" (p.21). È universale perché è radicato nell'esperienza dell'affinità esistente fra un'emozione o un pensiero da una parte ed un'esperienza sensoriale dall'altra, perché è comune a tutti gli uomini.

Per Fromm, è proprio esaminando la natura del sogno che appare chiara la logica del linguaggio simbolico.

Per Fromm, infatti, l'unica definizione della natura dei sogni che non falsi o ristringa questo fenomeno è la seguente: "il sogno è un'espressione, dotata di senso e significato, di ogni genere di attività mentale che si verifica durante lo stato di sonno" (p.30).

Essendo la veglia e il sonno i due poli dell'esistenza umana, la veglia è assorbita dalla funzione dell'attività, il sogno invece dalla funzione dell'esperienza individuale. Di conseguenza, quando siamo svegli, " ci incamminiamo nel regno dell'azione" e ciò che riceviamo dal sogno si rappresenta a noi nella sfera spazio-temporale. Il sogno pertanto è strutturalmente legato all'inconscio, mentre l'azione è legata alla coscienza.

Fondamentale per capire cos'è il sogno per Fromm è la sua definizione di inconscio, definizione che si allontana notevolmente sia da quella data da Freud che quella data da Jung. Infatti, l'inconscio non è né il mitico regno degli archetipi collettivi di Jung né la sede della forza irrazionale della libido di Freud, ma va invece inteso in questi termini: "ciò che pensiamo o sentiamo subisce l'influenza di ciò che facciamo". La coscienza è "l'attività mentale che si svolge quando siamo alle prese con la realtà esterna e dobbiamo agire". L'inconscio è invece "la condizione psichica che si verifica in uno stato di esistenza in cui abbiamo chiuso ogni comunicazione con il mondo esterno e non ci preoccupiamo più dell'azione, ma della nostra realtà individuale" (pp.33-34).

Il nocciolo del pensiero di Fromm è quindi che sia la coscienza che l'inconscio operano sul piano della razionalità; con l'unica differenza che l'inconscio azzera la dimensione spazio-temporale e, di conseguenza, le categorie logiche che su questa dimensione trovano la loro naturale collocazione. In conclusione, a livello di inconscio, esistono soltanto i contenuti del pensiero, mentre a livello di coscienza operano anche le categorie logiche usate per pensare. In altre parole, "l'inconscio è illogico mentre la coscienza è logica".

Ovviamente, per Fromm, illogico non è sinonimo di irrazionale. Come per Kant esiste una "ragione pura" ed una "ragione pratica", così per Fromm esiste una ragione (o se si preferisce, razionalità) illogica ed una razionalità logica.

Abbiamo qui usato i termini "logico" e "illogico", intendendo per logico quello che intende Fromm, e cioè quello che è soggetto a limitazioni di spazio e di tempo, e per "illogico" quello che è soggetto unicamente all'elaborazione dell'esperienza individuale, che usa proprie categorie "logiche". In termini kantiani, la coscienza obbedisce alle leggi generali del pensiero (l'io trascendentale) mentre l'inconscio obbedisce unicamente alle leggi della sensibilità individuale .

È evidente che, in una concezione del genere, la sfera dell'irrazionalità è estremamente ristretta, tanto da farci concludere che, per Fromm, l'irrazionalità non esiste, o meglio, che quello che si intende per irrazionalità è invece suprema saggezza.

Dal punto di vista di Platone e di Freud i sogni sono considerati espressioni di conflitti irrazionali e primitivi che si svolgono in noi, e il fatto che così facilmente ce ne dimentichiamo si spiega ampiamente con il nostro senso di vergogna, di fronte a quegli impulsi irrazionali e criminali che manifestiamo quando non siamo sotto il controllo della società. Senza dubbio, questa interpretazione dei sogni è vera, e possiamo occuparcene dando alcuni esempi. Ma il problema sta nello stabilire se essa è assolutamente vera o se gli elementi negativi dovuti all'influenza della società non si possono spiegare con il fatto paradossale che nei nostri sogni non siamo soltanto meno ragionevoli o meno discreti, ma che siamo anche più intelligenti, più saggi e più capaci di giudicare quando dormiamo che non quando siamo svegli.

C'è dunque in Fromm una sostanziale adesione alla teoria junghiana della fondamentale saggezza dell'inconscio. Lo afferma infatti lui stesso, riconoscendo di essere d'accordo con Jung sul fatto che, "l'inconscio manifesti talvolta un'intelligenza ed una finalità molto superiore alle possibilità introspettive coscienti" (p.94). Ma mentre per Jung questo fatto è un fenomeno fondamentalmente religioso, il che vuol dire un'intuizione della realtà trascendente (che è poi quella degli archetipi fondamentali), per Fromm altro non è che l'attività del pensiero individuale liberato dai vincoli delle categorie logiche spazio - temporali e (ci sembra di capire) anche dai condizionamenti socioculturali imposti dalla società. Per Jung pertanto, l'inconscio è capace di accedere alla realtà noumenica trascendente, per Fromm l'inconscio è invece l'Io liberato dalle categorie che determinano la conoscenza fenomenica, ciò che lo rende capace di acquisire conoscenze altrimenti distorte, rimosse, o alterate. Come abbiamo detto all'inizio, per Fromm il linguaggio simbolico è meccanismo fondamentale del sogno, il linguaggio attraverso il quale l'inconscio realizza la sua razionalità. "Nel linguaggio simbolico, le esperienze interiori ed i pensieri vengono espressi come se fossero esperienze sensoriali, avvenimenti del mondo esterno. Retto da una logica diversa da quella convenzionale di cui ci serviamo durante il giorno, una logica cioè in cui non tempo e spazio sono le categorie dominanti, ma intensità e associazione, è forse l'unico linguaggio universale che sia mai stato creato dall'uomo, rimasto identico per ogni civiltà e nel corso della storia. Un linguaggio con la sua grammatica e la sua sintassi, che bisogna comprendere se si vuole capire il significato dei miti, delle favole e dei sogni" (p.11).

Altro punto fondamentale dell'approccio frommiano è che, nell' interpretazione dei sogni, è necessario distinguere se questi siano l'espressione di un desiderio irrazionale e del suo adempimento, o di un semplice timore ed ansietà, o di una visione di forze o di fatti interiori o esteriori. "Dobbiamo intendere il sogno come la voce della parte più abietta o di quella più elevata di noi stessi?" (p.141). Ponendosi questa domanda, Fromm manifesta la sua difficoltà ad allontanarsi dalla matrice freudiana e dal dogma della totale irrazionalità del sogno. In realtà, nella trattazione teorica, e nel suo tentativo di proporre una nuova ed originale definizione dell'inconscio, Fromm ha già rifiutato la posizione di Platone e di Freud. Sostanzialmente, sia Platone che Freud, identificando nel sogno la manifestazione delle più basse pulsioni istintuali, non fanno altro che esplicitare la concezione, espressa con martellante incisività da Platone stesso nella Repubblica, che l'uomo è tale in quanto essere sociale e che sono le regole a lui imposte dal contesto socio politico che costituiscono la sua vera identità. Freud, nel Disagio della Civiltà e altrove, trasferisce sul piano psicologico la convinzione platonica che la civiltà è aderenza alle norme sociali e che la condizione primitiva (il cosiddetto "stato di natura") è la condizione della belva umana caratterizzata da quell' istinto "di bestia selvaggia e senza legge che affiora durante il sogno". Il pensiero di Fromm, invece, rientra nell'alveo di una concezione completamente opposta, e cioè quella della fondamentale bontà dell'uomo come essere naturale, e degli elementi corruttori insiti nella cosiddetta "civiltà": in una parola, una delle tante versioni del mito settecentesco e romantico del "buon selvaggio" di rousseaniana memoria.

Egli afferma infatti decisamente che la civiltà non soltanto esercita un effetto benefico, ma anche uno dannoso sulle nostre funzioni intellettuali e morali. Gli uomini dipendono l'uno dall'altro, ma finora la storia umana è stata influenzata dal fatto che la produzione dei beni materiali non era sufficiente a soddisfare i bisogni legittimi di tutti. La tavola era apparecchiata soltanto per pochi dei molti che volevano sedervisi per mangiare. I più forti cercavano di accaparrarsi un posto, il che significava l'impossibilità per gli altri di prendersene uno. Se avessero amato i loro fratelli come Budda, i profeti o Cristo predicarono, avrebbero spartito con essi il loro pane invece di mangiare carne e bere vino senza di loro. Ma poiché l'amore è la conquista più alta e difficile del genere umano, non dobbiamo incolpare l'uomo per il fatto che chi poteva sedersi alla tavola e godere delle cose buone della vita non desiderasse spartirle con nessuno e fosse perciò costretto a ricorrere alla forza nei confronti di coloro che minacciavano i loro privilegi. Tale potere era spesso quello del conquistatore, il potere fisico che costringeva la maggioranza a contentarsi della sua parte. Ma non sempre esso era efficace o sufficiente. Era necessario dominare le menti delle persone per impedire loro di usare i pugni. Questo controllo sulle intelligenze e sui sentimenti era un elemento necessario per conservare i privilegi di pochi; tuttavia in questo processo, anche le menti dei pochi si sviarono come quelle dei più. La guardia che sorveglia qualcuno diventa quasi altrettanto prigioniera del suo stesso sottomesso, gli appartenenti a quella "elite" che ha il compito di controllare i non "eletti" diventano prigionieri delle proprie tendenze restrittive. In tal modo la mente dei dominatori e dei dominati devia da quello che è il fine essenziale dell'uomo, cioè di sentire e di pensare umanamente, di usare e di sviluppare i poteri della ragione e dell'amore che gli sono innati e dei quali non può fare a meno.

"In questo processo di sviamento e di ritorsione il carattere dell'uomo si altera e quei fini in contrasto con gli interessi della sua vera natura umana diventano essenziali. La sua capacità di amare, si impoverisce ed egli è portato a desiderare il potere sugli altri; diminuisce la sua sicurezza interiore ed è indotto a cercare un compenso sollecitando intensamente fama e prestigio. Perde il senso della dignità e dell'integrità ed è costretto a trasformarsi in una merce, traendo il rispetto di se stesso dalla sua commerciabilità, dal suo successo. Da tutto ciò deriva che apprendiamo non soltanto ciò che è vero ma anche ciò che è falso, che ascoltiamo non solo ciò che è buono, ma siamo anche costantemente sotto l'influsso di idee nocive alla vita" (pp.38-39).

In queste righe è riassunta l'essenza del pensiero di Fromm, ed è evidente quanto abbiamo sopra sottolineato e cioè la sua fede nella innata bontà dell'uomo e il concetto dell'influenza corruttrice della civiltà nel cui contesto si strutturano invece quelle istanze della personalità che Freud aveva chiamato Ego e Superego, in un processo di progressivo allontanamento e dominio delle istanze dell'id originario.

Quindi, per Freud, le pulsioni istintuali e la tendenza a soddisfarle mediante il principio del piacere ed il processo primario appartengono alla sfera dell'irrazionale e la stessa maturazione dell'uomo consiste proprio nel sostituire al principio del piacere il principio della realtà (e cioè la razionalità all'irrazionalità), onde l'inevitabile strutturarsi di un superego fondato su quei principi sociali e morali che sono sì fonte di conflitti e di nevrosi, ma sono anche condizione universale e necessaria della condizione umana.

"L'uomo diventa nevrotico perché incapace di sopportare il peso della frustrazione impostagli dalla società per servire i suoi ideali civili e se ne deduce che, se queste pretese venissero eliminate o ridotte di molto, tornerebbe la possibilità di essere felici" (Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, p,223). Ma questa è un'illusione. Perché senza repressione non ci sarebbe civiltà e non ci sarebbero tutti i vantaggi che tale condizione comporta. Le frustrazioni, i conflitti, l'infelicità, sono quindi una necessità esistenziale a cui l'uomo non può sottrarsi e dai quali non c'è rimedio.

Persino l'amore, che Freud riconosce come uno dei fondamenti della civiltà, fa sì che l'uomo si senta "pericolosamente dipendente da una parte del mondo esterno, cioè dall'oggetto amoroso prescelto e si espone alle più profonde sofferenze se da quello venisse respinto e se lo perdesse in seguito a infedeltà o morte" (ibidem, p.237). E questa osservazione di Freud è così profondamente vera che la reazione più comune di coloro che hanno sofferto una delusione amorosa è di azzerare il sentimento amoroso quale il cammino della civiltà lo ha costruito e di sostituirlo con la semplice soddisfazione dell'impulso sessuale, regredendo così alla condizione di irrazionalità dell'id ed alla mera applicazione del principio del piacere. Ma, come è noto, questo tipo di reazione innesca atteggiamenti distruttivi e autodistruttivi ben più gravi delle sofferenze generate dalla privazione dell'oggetto esterno, provocando processi irreversibili di disintegrazione psichica.

Abbiamo insistito su questo punto perché ci sembra un momento cruciale del contrasto tra Freud e Fromm sul problema del valore negativo o positivo della parte irrazionale dell'uomo. Freud è molto complesso ed articolato a questo proposito, mentre Fromm, che crede nel mito del buon selvaggio ed ha fede nella originaria bontà dell'uomo, parla liberamente di "capacità di amare", dando per scontato che questa sia una capacità innata che, casomai, viene danneggiata e perduta a causa dei malefici effetti della civiltà. Per Freud, invece, come abbiamo visto, l'amore è proprio uno dei fondamenti della civiltà e deriva dal fatto che l'uomo, avendo sperimentato che l'amore sessuale (genitale) gli procurava il massimo soddisfacimento, in modo da diventargli modello di ogni felicità, dovette trarne le conseguenze che la soddisfazione di essere felici nella vita andava ulteriormente cercata nel campo delle relazioni sessuali, ponendo l'erotismo genitale al centro della vita stessa (ibidem, p.27).

Freud sembra più convincente di Fromm almeno a questo proposito. Ma se l'amore appartiene, almeno in parte, alla sfera della razionalità ed è un frutto dello sviluppo della civiltà, ci sembra difficile accettare in toto la dicotomia freudiana tra coscienza (intesa come attività mentale connessa con la realtà esterna) e inconscio (inteso come condizione psichica in cui abbiamo chiuso ogni comunicazione con il mondo esterno). Dicotomia da cui deriva la teoria dell'interpretazione dei sogni come frutto della mera attività dell'inconscio così definito. Nella rigida teorizzazione freudiana, l'inconscio ha una sua precisa eziologia ed una sua precisa funzione. Accettato l'assunto che i sogni sono espressione degli impulsi dell'inconscio e che esprimono desideri repressi di cui non permettiamo a noi stessi di renderci conto e che dai sogni stessi nasce la soddisfazione allucinatoria di questi desideri, tutto si inquadra in una logica inoppugnabile, anche se l'esperienza ci dimostra che tutto questo non è vero.

L'approccio frommiano (come del resto quello di Jung) porta un notevole contributo alla soluzione del problema dell'interpretazione dei sogni anche se è ben lungi dall'impostare una teoria esaustiva e coerente. Persiste una certa tendenza semplificatoria. Da un lato l'inconscio (irrazionale, o meglio illogico), non imprigionato nella gabbia delle categorie spazio-temporali e pertanto dotato di non meglio precisate facoltà intuitive che si manifestano durante il sogno. Dall'altro lato, la coscienza, legata alla realtà esterna, e fortemente condizionata dalle influenze negative di quella che chiamiamo "civiltà". Tutto questo scarsamente convince anche perché di "razionalità" nei sogni ce n'è anche troppa. Inoltre la razionalità non è limitata alle categorie spazio-temporali. Spazio e tempo, d'altronde, sono difficilmente identificabili come categorie logiche e meglio sarebbe definirli kantianamente come forme dell'intuizione appartenenti alla sfera della sensibilità, non essendo infatti possibile concepire alcun contenuto sensibile che non sia collocato nello spazio e nel tempo. Categorie logiche sono invece indubbiamente i predicati del reale (causa, effetto, quantità, qualità, ecc.), e non vi è dubbio che tali categorie operano nel sogno. La stessa dimensione spaziale nel sogno è sempre presente, anche se fortemente soggettivizzata (ma non lo è forse anche nello stato di coscienza?).

Fromm coglie invece una caratteristica fondamentale del sogno quando parla di "logica fondata sull'esperienza individuale". Da questo punto di vista, l'azzeramento della dimensione temporale acquista particolare rilievo, proprio perché il tempo è l'essenza stessa della sensibilità individuale, in quanto senso interno della realtà dell'io, capacità di riferimento di ogni realtà a se stessi ed all'uomo in particolare. La contrazione e la dilatazione della dimensione temporale che è inerente alla natura stessa della psiche e che è operante nell'elaborazione cognitiva di qualsiasi momento del vissuto, come dimostrano i processi di razionalizzazione delle proprie esperienze, acquistano particolare importanza nel sogno, nel quale si attenua quella pesante esaltazione del senso del tempo che è caratteristica dell'evoluzione dell'uomo e della maturazione dell'individuo e che è pertanto filogenetica ed ontogenetica ad un tempo. Non per nulla la dimensione mitica (e perciò atemporale) è costante nell'attività onirica, e Fromm giustamente sottolinea l'affinità tra mito e sogno.

Altra importante intuizione di Fromm è l'elevato contenuto simbolico del sogno, fatto questo che avvicina ancor più la dimensione mitica (fatto culturale) alla dimensione onirica (fatto psicologico individuale). Va a suo merito, quindi, l'aver superato la trascendenza dell'interpretazione junghiana, sottolineando l'importanza dei simboli accidentali accanto a quelli universali, privilegiando così l'interpretazione analitica nei confronti di quella anagogica.

L'approccio frommiano all'interpretazione dei sogni appare quindi ricco di intuizioni e inoppugnabile in alcune conclusioni, corroborate anche da esemplificazioni e convincenti raccolte nel corso di analisi.

L'occasionale fragilità dell'impianto teorico è, del resto, caratteristica di tutta l'opera di Fromm, combattuta fra le concezioni totalizzanti fortemente condizionate dalla biologia e dalla genetica, nonché dall'antropologia, dei suoi predecessori e gli orientamenti, più problematici e sostanzialmente orientati verso la psicologia sociale, dei suoi contemporanei.

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