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PSICOANALISI NEOFREUDIANA

A cura dell' International Foundation Erich Fromm
Periodico quadrimestrale
anno XX numero 3 speciale
Registrato al Tribunale di Prato il 01/06/1988 al n. 133
Comitato Scientifico - Coordinatore: Irene Battaglini

Stampato in proprio - diffusione via Web
Direttore Responsabile: Ezio Benelli
Editing: Irene Battaglini
Polimnia - Musa della narrazione

SVILUPPO E AMBIENTE, UOMO E NATURA

Saro Munafò *

Mi sia consentita, come premessa, una specie di "professione di fede"; sono seriamente preoccupato, come tutti voi immagino, sia del grave decadimento della "qualità" della nostra vita, come s'usa dire, sia ancor più dai prevedibili sviluppi, già a breve termine, di situazioni in atto e di cui sono chiare le tendenze.

Ma, a costo di apparire poco immaginoso, confesso di non essere fra quanti prevedono imminente la fine del mondo, il "Mille e non più Mille"; né credo di poter essere incluso, tanto meno, tra i savonarola che chiamano a drastiche rinunce come salvezza dalla dannazione, né un luddista che invochi la distruzione delle macchine - moderno travestimento del diavolo - per il ritorno a chissà quali paradisi perduti.

Il mondo che molti ci invitano a rimpiangere, o anche questo di cui ci suggeriscono d'accontentarci, è pur sempre un mondo di sprechi, dissipazioni e veleni; e anche di malattia, fame, indigenza, morte precoce. Se è tanto contraddittorio, non è perché abbiamo ambito troppo, ma perché abbiamo operato male; le responsabilità non sono di troppa scienza, di troppa tecnica, di troppa Ragione, ma al contrario di insufficienza di calcolo, di previsioni, di interventi, d'insufficienza insomma di Ragione applicata.

La tecnica non è l'inganno offerto da un qualche mefistofele alle nostre ambizioni faustiane e dunque la nostra dannazione; ma è al contrario lo specifico della umanizzazione, della crescita dell'uomo come tale e della umanizzazione della stessa Natura. Tutto cominciò col primo fuoco; ma non è affatto inevitabile che debba concludersi con la ecpirosis, con la combustione universale. Sono consapevole che la nostra specie, accumulando errori, può finire come i dinosauri; ma sono parimenti convinto che, al contrario dei dinosauri, ha la capacità di prevedere e provvedere in tempo.

Leggevo recentemente con viva curiosità come un brillante articolista del so-fisticato "New Yorker" ha, con buon successo editoriale, teorizzato la imminente 'Fine della Natura", traendone la decisione di non mettere al mondo figli per un domani di plastica e di ritirarsi a vivere in un cottage degli Adirondack, presumibil-mente a pescar trote,

Per parte mia, essendo stato recentemente allietato dalla nascita di una bella bambina, non sono disposto a tanto pessimismo e nutro fiducia nella possibilità non soltanto di conservare questo mondo, ma di contribuire anzi a lasciarglielo migliore di quanto non sia.
Perché certo, il mondo che viviamo è piuttosto disastrato.

Ci troviamo di fronte ad una realtà clamorosamente contraddittoria: da un lato uno sviluppo che ha portato alcuni Paesi ad un tenore di vita inimmaginabile ancor pochi decenni fa, ma avvelenato dalle "scorie" di quello stesso sviluppo; dall'altro aree di ingiustizia, di povertà, di disperazione, aree che noi chiamiamo "sacche"; a ben guardarle su un atlante, comprendono la gran parte delle terre emerse.

Sorvolando sul problema, invero piuttosto serio, della correlazione tra i due fenomeni, non possiamo non rilevare come si sviluppino in parallelo: quanto cresce quel benessere con relativi detriti tanto cresce quella miseria con relativa disperazione.

Sia lo sviluppo che il sottosviluppo contribuiscono solidalmente al degrado della Natura: intossicata dai veleni dei Paesi ricchi, depredata dal saccheggio delle sue risorse in quelli che tentano di sopravvivere alla propria povertà.

Da un lato l'atmosfera è avvelenata dalle nostre diossine e piogge acide, dall' altro è depauperata dalla distruzione delle foreste, abbattute per far spazio ad una agricoltura povera, o anche solo per ripagare col legno parte dei debiti contratti per importare grano o medicine o altro genere di prima necessità.

Le prospettive sono peggiori dell'attualità. Non c'è chi non convenga sul diritto dei popoli sottosviluppati di garantirsi almeno di che vivere o anche di che vivere meglio.

Ma ecco che, calcolando che cosa questo significherebbe per la Natura, ovvero per il mondo, ci si prospettano scenari non incoraggianti: che accadrebbe se cinque o sei miliardi di esseri umani si concedessero in ipotesi la comodità di un ' automobile a testa, con un inquinamento già tanto grave per le nostre sole auto (invero anche due o tre, a testa)?

Ed ecco che, preoccupati che i Paesi poveri, attratti dai nostri standards di vita, adottino i nostri stessi modelli di sviluppo, suggeriamo loro "per il bene comune", di adattarsi a vie di mezzo più ragionevoli: qui lascio ai nostri psicanalisti di trarre, il che è facile da tante parti del nostro Fromm, il giudizio su queste nostre contraddizioni, o ipocrisie che siano; tanto più clamorose in quanto noi savonarola restiamo fermamente determinati a insistere in quei nostri modelli, ulteriormente sofisticandoli.

C'è chi, come ipotesi alternative ad una analoga conquista del benessere da parte del Terzo Mondo, propone di convincerlo (o indurlo con qualche condizionamento economico) a rinunciare alla industrializzazione, accontentandosi dei nostri surplus, che poi si aggiungerebbero ai debiti pregressi. Insomma, gli passiamo l'usato ed adottiamo noi l'ultima novità.

D'altra parte, se il mondo sottosviluppato non si sviluppa, potrebbe accadere (ecco un altro scenario negativo) che centinaia di milioni di uomini da quelle terre affamate si riversino sui nostri lidi. In verità, stiamo elaborando progetti di "società multietniche"; ma è diffuso il timore che di fronte a possibili "migrazioni di popoli" sarebbe difficile realizzarle con calma ed ordine. Sicché anche questa sfiducia, sfiducia nelle nostre possibilità, nella nostra ragione, predispone a ragioni di rifiuto; e anche dove non è finora allignato, il razzismo può mettere radici.

In ogni caso, come conseguenza collaterale dell'attuale sviluppo/sottosviluppo, abbiamo il degrado che lamentavamo, la rottura già di molti dei delicati equilibri dell'ecosistema planetario che ci ha consentito di nascere e di prosperare fino ad oggi e che ora dobbiamo preservare per sopravvivere.

Sviluppo ed ambiente insomma strettamente correlati; ed invero non sono che un aspetto del generale problema dei rapporti tra uomo e natura. Di quegli effetti collaterali fino a pochi anni fa pochi si preoccuparono: Barry Commoner o Amendola, e pochi ancora, una corrente nel pensiero comunque fortemente minoritaria, in particolare nel nostro Paese, proprio un Paese dove le distorsioni del "modello di sviluppo", hanno ulteriormente aggravato quegli effetti collaterali, portandoci a situazioni di crisi ormai evidente.

Per la convergenza, involontaria o inavvertita, degli interessi e delle pressioni di grandi gruppi industriali e delle legittime rivendicazioni di grandi masse umane ad un posto di lavoro in una solida industria; per l'induzione o la seduzione da parte dei mass-media a sempre nuovi consumi e stili di vita, per innumerevoli concause; abbiamo operato un vero e proprio saccheggio della natura, considerata come bene inesauribile, assolutamente rinnovabile e "res nullius".

L'espansione produttiva ha inoltre assunto da noi aspetti di autentica rapina ambientale se penso agli ultimi anni '60; ma anche con la involontaria complicità di certo operaismo ossessionato dalle esigenze occupazionali. Chi può scagliare la prima pietra? I mass-media che deplorano il degrado delle nostre coste ma che hanno imposto come status sociale di massa il week-end? Che ci informano angosciati sull'effetto serra ma che ci inducono a valutarci secondo la cilindrata o l'ultimo modello della nostra auto? O noi - ciascuno di noi - che contribuiamo al fatturato edilizio delle seconde case e si lamenta che il "mare è finito" o che, mentre maledice l'aria che respira in città, contemporaneamente progetta l'acquisto della seconda auto per la moglie, o i figli?

Dico questo per sottolineare l'esigenza di non addebitare solo ad altri le responsabilità, ma di sentirci innanzitutto tutti correi.

Soltanto dopo aver ben compreso che ognuno di noi, anche nel suo privato, è corresponsabile di quanto è accaduto e può accadere, possiamo individuare le responsabilità maggiori di chi ha governato un intero periodo di trasformazione senza prevedere e provvedere, di chi ha cinicamente speculato, di chi ha tollerato, della stessa opinione pubblica (ovvero di tutti noi) che ha assistito con indifferenza a tanti scempi.

Insisto: non per coprire con una generalizzazione delle responsabilità i maggiori colpevoli, ma per una maggior presa di coscienza del necessario impegno comune, insisto su questo.

Il rischio di scaricare le colpe, e l'onere di rimediare ai guasti, su altri è continuo.

Deprechiamo le devastazioni delle foreste amazzonica e filippina noi che continuiamo a trasformare in camere a gas le nostre città, a contaminare la terra, ad uccidere fiumi, laghi e mari.

Partono i nostri inviati per andare a Manhaus da Fiumicino, quasi che i guasti che vanno a vedere fossero maggiori dei guasti avvenuti o imminenti che si lasciano alle spalle.

La nostra stessa Roma, ad esempio: la nuova Roma di questo dopoguerra, risultato dell'inurbamento in massa di centinaia, di migliaia di contadini strappati da terre condannate all'abbandono o alla seconda casa. Roma che ha visto crescere ininterrottamente nella totale impunità, dunque con la maggiore o minore complicità di tutte le sue amministrazioni, le riserve indiane delle sue sterminate periferie. Il suo stesso centro, lussuosa vetrina per lo struscio pomeridiano, sconvolto da un degrado non minore di quello delle borgate.

In questa metropoli ostinatamente monocentrica, congestionata, asfissiata sono inevitabilmente emersi quei comportamenti già studiati in laboratorio nelle popolazioni dei topi: animosità, intolleranza, aggressività; e di qui grande malavita organizzata, delinquenza comune, microdelinquenza, microconflittualità, anemia, stress, che altro ancora?

La comunità urbana sconvolta dai disservizi, dal prepotere burocratico, dalla casualità dei rapporti commerciali, dalla difficoltà degli stessi rapporti interpersonali; e sulla socialità incrinata si scaricano la pressione delle cosche, le correità mafiose, l'individualismo sfrenato, l'ansia e l'angoscia dei più.

Anche questo è ambiente, quello sociale: non è soltanto del buco d'ozono che dobbiamo preoccuparci, ma anche del deserto umano nel quale rischiamo di avviarci.

Quando si parla di sviluppo e di ambiente, bisogna pensare non soltanto all' ambiente naturale ma anche a quello umano, che ne è parte. Direi di più: 1'ambiente propriamente naturale dell'uomo è proprio la città, ben più dei boschi e dei prati.

Fu in Mesopotamia, con 1'agricoltura e quindi con città come Babilonia, che cominciò, dopo la lunga preistoria, la nostra storia.

La rottura dell'equilibrio non è avvenuta a causa del progresso, ma per insufficienze del progresso, ovvero per insufficienza di ragione, di filosofia, di tecnica che quel progresso debbono regolare. Non c'è perciò un "prima" cui si possa tornare, se non le palafitte d'un villaggio di cacciatori e di raccoglitori di bacche.

A questo punto, dobbiamo invece renderci conto che ci troviamo di fronte ad un problema globale, di straordinaria complessità.

L'ambiente a rischio è tutto, l'Amazzonia come Roma, le concause sono innumerevoli, le piogge acide e la nostra pigrizia motorizzata, la campana suona per tutti, nelle megalopoli come nei villaggi dell'Himalaya; la società umana è unica, il "modello di sviluppo" che le va proposto deve essere valido per tutti, i comportamenti adottabili da tutti.

Si tratta di affrontare in tempi rapidi un problema planetario; entro i prossimi dieci anni gli eventi avranno una ulteriore accelerazione, ed è ragionevole immaginare che accadranno più cose che nei primi novant'anni del secolo che si avvia a concludersi.
Bisogna che a prevalere siano le cose buone, cioè decisioni valide per l'intera specie e che sfruttino tutte le straordinarie potenzialità e conquiste della specie: l'intelligenza, la saggezza, l'equilibrio, la capacità di contemperare desideri e possibilità; ma - insieme - la razionalizzazione, la tecnologia, la scienza, l'apparato produttivo, la ricerca.

Siamo stati capaci di conquistare la Luna ed esplorare il sistema solare; gli stessi strumenti (ovvero ragione, tecnica, capacità di pianificare, di coordinare i contributi) debbono pur essere in grado di raddrizzare la nostra rotta, di stabilire il rapporto giusto con la Natura di cui siamo figli, la cui placenta continua a nutrirci, le cui leggi abbiamo studiato, il che ci consente quindi di operare non per il suo saccheggio ma per il suo controllo.

Un progetto di rapporto con l'ambiente meno rozzo di quello usato finora, è certamente possibile. Impone un salto di qualità; ma appunto i salti di qualità sono tipici della storia umana. Per millenni i primi agricoltori bruciarono le foreste per ottenere campi più fertili di quelli sfruttati; poi elaborammo nuove tecniche, capaci di dare fertilità; oggi queste medicine si trasformano spesso in veleni, ma un più alto impegno tecnico può consentire di elaborare altri proficui metodi. Non sono le contraddizioni dello sviluppo che devono spaventare, esse sono tipiche ed inevitabili, ogni successo porta nel suo seno ulteriori problemi: fu necessario bonificare le paludi per vincere la malaria e poter seminare più grano, ci troviamo oggi a dover salvare paludi residue e progettarne la ricostruzione. È certamente una contraddizione storica, ma è anche il risultato di un successo ed è comunque un problema solubile.

Il punto è piuttosto che iniziative isolate, interventi per singoli casi o per settori risulterebbero inutili quand'anche non negativi.

Per esperienze personali, in problemi quali la bonifica della valle padana, ho continuatamente verificato questa realtà: non ci sono soluzioni isolate, in sostanza perché non ci sono problemi isolati. Ci sono problemi interconnessi, anzi c'è sullo sfondo un problema totale, che impone una sorta di "modernizzazione ecologica della economia", secondo la felice formula dell'on. Martelli; una sorta, anzi, di ristrutturazione dello sviluppo umano, per la salvezza dell'ambiente umano.

Lo sviluppo non solo non dovrà più avvenire contro l'ambiente, ma anche "in favore" dell'ambiente.

Occorrerà elaborare un nuovo sistema di standards, di regole, di comportamenti; comportamenti sia per le imprese che per i singoli, perché ognuno di noi è una piccola "fabbrica" che produce ma anche sparge veleni, rifiuti inquinanti, guasti a venire.

Occorrerà anche ripensare l'uso del territorio, gestirne gli spazi secondo le vocazioni e non piegarne la vocazione alle leggi del profitto.

Per un così complesso mutamento, decisivo sarà l'intervento dei mezzi di informazione, ovviamente meno inclini a cercare gli effetti shock, speriamo, e più disposti alla loro funzione essenziale di informatori, di propositori di modelli di vita e di comportamenti.
Questi - della scienza, della tecnica, dell'apparato produttivo, dei nuovi modi di vivere individuali - potranno essere gli strumenti efficaci di una nuova politica che consideri il pianeta come la casa comune dell'uomo, tutti gli uomini cittadini con gli stessi diritti e doveri e gli alberi, i fiumi, i mari, i laghi, le altre specie animali e vegetali, nostri concittadini, compagni della stessa casa.

L'ambiente è una realtà complessa, fatta di sistemi interagenti e che richiede un grande sforzo per conseguirne una tutela efficace.

Oggi c'è più disponibilità, più attenzione, più impegno di dieci anni fa, ma ancora, forse, una non sufficiente consapevolezza di quanto è necessario fare.

L'augurio è che sempre più persone possano sempre più capire quanto bisogna che "gli altri" facciano e quanto è altrettanto necessario che "ciascuno" di noi capisca di dovere, anche individualmente, fare.

* Presidente delle Terme di Chianciano.

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