Indice generale

PSICOANALISI NEOFREUDIANA

A cura dell' International Foundation Erich Fromm
Periodico quadrimestrale
anno XX numero 3 speciale
Registrato al Tribunale di Prato il 01/06/1988 al n. 133
Comitato Scientifico - Coordinatore: Irene Battaglini

Stampato in proprio - diffusione via Web
Direttore Responsabile: Ezio Benelli
Editing: Irene Battaglini
Polimnia - Musa della narrazione

PSICOANALISI E AMBIENTE: la malattia psicosomatica come nuovo sintomo del contemporaneo "Disagio della Civiltà"

Diego Garofalo *

Introduzione: la malattia psicosomatica e l'ambiente

L'ipotesi che questo intervento vorrebbe illustrare è che la malattia psicosomatica può essere vista come un "segno" del contemporaneo "disagio della civiltà", e che quindi è giocoforza inscrivere questa sempre più diffusa espressione del disagio psicofisico in una considerazione ecologica integrale. Se al termine "ambiente", infatti, si da un significato globale includente il rapporto biopsicosociale della persone con sé, gli altri, la natura, non ci si può limitare al circuito biologico dell'azione umana sull'ambiente e viceversa, ma è necessario includere lo studio della sfera psicosociale di tale circuito, in particolare, è necessario affrontare il rapporto tra salute mentale e modelli di sviluppo umano, sociale, tecnologico, con speciale considerazione agli effetti di feedback negativo di questi ultimi sulla salute mentale dell'individuo, con la creazione di un disagio psichico tanto più pericoloso quanto più esso non è percepito, mentalizzato, coscientizzato, come avviene appunto (secondo la nostra tesi) nella malattia psicosomatica. Un tale studio, ovviamente, aiutando a ridisegnare un modello ecologico di segno complessivo e "complesso", a sua volta aiuterebbe a rinnovare la mentalità scientifica sia dei cultori delle scienze biologiche sia di quelli delle scienze psicosociali (è questa la conclusione cui perverremo alla fine della nostra disamina tecnico-specialistica).

L'ottica adottata, come si intravede dai termini usati nel titolo, è quella clinico-psicoanalitica, e quindi sarà inevitabile l'argomentazione sul rapporto psicoanalisi-ambiente e sul rapporto psicoanalisi-malattia psicosomatica; tale rapporto verrà analizzato e attraverso un breve excursus storico sull'argomento e attraverso un sommario esame critico del possibile contributo della psicoanalisi alla riduzione di tali nuove espressioni del disagio psichico o, al positivo, alla promozione di una più comprensiva salute mentale nella società d'oggi.

Intanto è bene precisare cosa intendiamo per malattia psicosomatica; che qui viene definita "nuovo" sintomo del disagio umano soprattutto per la sua maggiore e sempre più diffusa incidenza epidemiologica anche rispetto alla sintomatologia nevrotica e psicotica. In realtà, che una componente psichica sia spesso determinante sul benessere e malessere della persona e sulla "cura" della salute e della malattia è cosa risaputa fin dagli inizi nella storia della medicina occidentale, che sempre ha interpretato in tal senso gli effetti benefici di farmaci placebo, di pratiche rituali suggestive (si ricorda, fra i tanti, il mesmerismo), dell'ipnosi su disturbi detti appunto di "conversione somatica" (come ad esempio l'isteria). Lo stesso dicasi degli effetti negativi degli "umori" psichici sul soma (Galeno), o, più recentemente, dello "stress" sulla funzionalità di alcuni organi in particolare (studio iniziato dalla più "moderna" medicina interna e dalla psichiatria di ispirazione psicoanalitica).

Il problema è però quello di che valore dare a tale rapporto psiche-soma e come inserirlo in una "valida" concezione scientifica. Compito ben arduo, come si può immaginare, in quanto tocca i nuclei di base della concezione occidentale del rapporto mente-corpo e della correlata filosofìa della scienza, con effetti generalizzati anche sul piano dell'operatività "scientifica" quotidiana.

Per questo è possibile parlare di una concezione "riduttivista" della malattia psicosomatica, propria della medicina classica meccanicistica ed organicista, che separa appunto mente e corpo, cercando di ridurre a fattori "biologici" anche i fenomeni "psichici" (lo stesso termine "psicosomatica" è, in tale visione, sostanzialmente vago ed impreciso, nascondendo talvolta l'ignoranza della medicina ufficiale sulla determinazione specifica di cause organiche di particolari malesseri: per questo il più recente DSM III ha adottato la dizione "fattori psichici che incidono sulla condizione fìsica"). Possono considerarsi espressione di tale concezione riduttivistica sia il più tradizionale studio dell'incidenza dei fattori emotivi sui fattori somatici (cfr., ad es., Sim e Gordon, 1975). sia la più aggiornata ricerca sofisticata di cause ultime di tipo organico propria di scienze di confine come la psiconeuroendocrinologia, psiconeurobiologia, psiconeurofisiologia (per un es. cfr. Biondi, 1984).

Una concezione più ampia ed integrale della malattia psicosomatica parte, invece, dal presupposto dell'unità psicofìsica e socioambientale della persona, cioè dell'integrazione inscindibile dei fenomeni psichici e di quelli fisici, con un corrispettivo mentale e somatico di ogni fenomeno patologico e con interscambio continuo tra sfera biologica e sfera psichica, entrambe in stretta correlazione -peraltro come in ogni essere vivente - con l'ambiente esterno con il quale si effettuano continui accomodamenti ed assimilazioni ("adattamento"). Questa visione più comprensiva ed integrale della psicosomatica è da una parte sostenuta da psicologi e psicoanalisti che per mentalità personale e specificità professionale tendono ad estendere l'influenza della psiche su ogni espressione anche corporea, e dall'altra da esponenti di avanguardia della medicina cosiddetta classica che addirittura definiscono psicosomatiche tutte le espressioni di malessere e di disagio della persona (cfr. Lipowski, 1977: "Introduzione" di Onnis, a cura di, 1988).

Questa duplice concezione (riduttivista e interazionista) e l'accennata duplice origine (dalla medicina interna e dalla psichiatria psicoanalitica) della psicosomatica si possono peraltro tradurre in molteplici visioni e direzioni di studio, di ricerca, di applicazione terapeutica, utilizzanti specifici contributi. È quanto avviene, ad es., nella psicosomatica collegata alla medicina interna che sottolinea le "modificazioni umorali e neurovegetative prodotte negli organi cavi e a livello dei sistemi circolatorio ed endocrino degli stati acuti di ansia e di aggressività, e degli stress psichici e psicofisici, nonché quelle disfunzioni e malattie, soprattutto croniche e a patogenesi non direttamente infettiva, in cui è riconoscibile l'importanza degli stati psicologici come fattore concomitante e facilitante per quanto concerne sia il rischio patogeno sia la tendenza alla cronicizzazione: tali molte affezioni cutanee, disfunzioni endocrine ed epatiche, alterazioni ematiche e cardiocircolatorie, disturbi reumatici e così via" (Enciclopedia Europa, voce "Psicosomatica", vol. 9,1979, p. 356). Ma questa stessa psicosomatica utilizza oggi anche gli studi di medicina comportamentale che correla la malattia ad eventi comportamentali delle persone (come stile di vita, tipo di alimentazione, stile di risposta emozionale, ecc.) e che utilizza pure i contributi decisivi della "psicologia della salute" (avvalentesi a sua volta di metodi e strumenti clinici, comportamentali, sistemici, psicosociali e di comunità) (cfr. Bertini, a cura di, 1988; Garofalo, 1989). D'altra parte anche la psicosomatica di ispirazione psicoanalitica va oggi oltre l'identificazione di specifici "conflitti emozionali di natura inconscia" sottesi a disturbi come ulcera duodenale, colite ulcerosa, asma, ipertensione, artrite reumatoide, neurodermatosi, iperti-roidismo (cfr. Alexander, 1951), e ricerca nuove strategie interpretative ed applicative di più vasta portata sulla base delle geniali osservazioni pionieristiche di Freud e Groddeck (v.avanti).

Dovrebbe comunque risultare ormai ben delineato il lungo ponte che la scienza cerca di costruire per integrare i due poli in discussione - soma e psiche -, non più considerati come dicotomici ma come dialettici, e che possono essere ricongiunti solo attraverso un'integrazione interdisciplinare. Integrazione tra varie discipline che hanno comunque un comune denominatore, il rapporto individuo-ambiente: sia esso l'ambiente introiettato e interiorizzato conflittualmente della psicoanalisi; sia quello che provoca le risposte emozionali e che plasma gli stili di vita della medicina e psicologia comportamentale; sia quello lavorativo e sociale della medicina e psicologia del lavoro e delle organizzazioni; sia quello che sottolinea i conflitti psicosociali, le immagini e rappresentazioni sociali di salute e malattia, le potenzialità e le risorse di aiuto della comunità, delle relazioni interpersonali, del sistema dell'igiene mentale e della psicologia sistemica e di comunità.

Prima di addentrarci nella disamina psicoanalitica e per concludere questa breve panoramica su malattia psicosomatica ed ambiente, possiamo dunque ipotizzare fondatamente - in base a queste premesse - che ci sia un nesso tra aumento del degrado ambientale, soprattutto urbano, ed aumento del disturbo psicosomatico. Questa tesi, accettabile da diversi punti di vista medico-psichici, va approfondita per la parte psicoanalitica che può dare un aiuto (malgrado l'apparente sua insufficienza al riguardo) all'impostazione e alla soluzione del problema.

Nella fattispecie conviene subito chiedersi : quale contributo può offrire la psicoanalisi al problema ambiente? Ovvero: qual è il rapporto tra inconscio e società, rapporto mediato da dinamiche individuali, storiche, culturali, che intessono la trama più ampia dell'individuo nel mondo e che determinano un concetto dinamico di natura ed ambiente?

Psicoanalisi, ambiente e società

In realtà i due termini - ambiente e società - non sono sovrapponibili, in quanto il primo assume di solito una connotazione ecologica in senso stretto, il secondo una connotazione psicosociale; ma il termine ambiente ha una valenza semantica tanto ampia da comprendere spesso anche l'altro termine (1'"ambiente sociale").

La concezione dicotomica del rapporto individuo-ambiente si è riflessa nell'eterna querelle sul peso specifico da attribuire all'uno o all'altro nella creazione, nello sviluppo e nella eventuale riparazione del benessere/malessere dell'individuo e della società. In tale prospettiva tradizionale l'ambiente ecologico ha avuto un ruolo di sfondo (perpetuandosi in tal modo la metafisica considerazione della superiorità dell'uomo sulla natura), fino a che negli ultimi anni non ci si è resi conto che, grazie al "progresso" scientifico e tecnologico o (in termini freudiani) al "processo di incivilimento", l'uomo stava distruggendo la natura; che così ritornava in primo piano, almeno come riflesso di una distorsione certa nello sviluppo del rapporto individuo-ambiente ed anche come stimolo ad una riproposizione "scientifica" di tutti i termini (biologici, psicologici, sociali) implicati nella questione.

La psicoanalisi è sostanzialmente intervenuta in tale questione mettendo a nudo un termine essenziale prima sconosciuto (scientificamente): l'inconscio dell'individuo, che plasma ed è plasmato dal rapporto con gli altri. Data inoltre la sua origine clinico-psichiatrica, si capisce come essa si sia prevalentemente occupata del rapporto nevrosi-società, pur cercando sin dall'inizio (già in Freud, contraddittoriamente: cfr. 1932, lez. 35) di evolvere in una "visione del mondo", incidente anche a livello socio-culturale, compito questo che sarà particolarmente sviluppato dall'approfondimento post-freudiano specie in epoca recente.

Quanto al rapporto nevrosi-ambiente biologico è ovvio che anche la psicoanalisi, figlia del tempo, non l'abbia direttamente mai affrontato se non nel "radicamento" biologico delle pulsioni inizialmente ricercato da Freud, in una contraddit-torietà (anche per questo aspetto) di ricerca tra determinanti ultime di carattere biologico o di carattere psichico che ha contrassegnato pure la successiva storia della psicoanalisi. Ma il freudiano iniziale "Progetto di una psicologia" (1895) scientifica basata sulla neurofisiologia si è risolto, in Freud stesso, in un'esaltazione della dimensione psichica specifica che subito ha dovuto fare i conti con la dimensione socioculturale, la quale per certi versi rappresenta il punto di congiunzione tra il biologico e lo psichico.

A questo risultato, peraltro, arriva anche la "bioanalisi" di Ferenczi che delinea un suggestivo (e fantastico) riproporsi della filogenesi nell'onto e peri-genesi dello sviluppo dell'inconscio (idea pure adombrata da Freud in Totem e tabù, 1912-13). Ma ancora più importante, in Ferenczi, è il contributo alla concezione del sintomo non come "simbolismo", ma come "linguaggio d'organo" (Freud), come sapere e piacere del corpo che in esso esprime una sorta di "economia del godimento" (Abraham). Non a caso tra i suoi allievi Alexander si dedicherà tra i primi allo studio psicoanalitico della malattia psicosomatica, mentre Ròheim e Herman continueranno il lavoro sulle frontiere comuni tra le diverse scienze (biologia, antropologia, etnologia) ricercando le corrispondenze e le analogie tra natura e cultura, tra mito e storia (come per altri versi fa Jung).

I neofreudiani (sui quali ritorneremo) ricercano, invece, le differenze tra le varie culture per definire la varietà della nevrosi, contrapponendosi alla considerazione omogenea ed universale della stessa da parte di Freud attribuita tout-court alla civiltà (Kultur), cioè al processo stesso di incivilimento.

Non c'è dubbio, infatti, che, benché Freud in più punti accenni alle variabili culturali della nevrosi (cfr. Roazen, 1973, pp. 200-208), sostanzialmente egli ascrive la nevrosi alla funzione repressiva, da parte della società, delle pulsioni istintuali dell'individuo, che tutt'al più le può recuperare sanamente solo in una dimensione di sublimazione. L'inevitabilità di questo conflitto di base tra libertà dell'individuo e bisogno di ordinamenti sociali, al duplice fine di "proteggere l'umanità dalla natura e di regolare le relazioni degli uomini tra loro" (Freud, 1929, p. 580), e che quindi mette a fondamento della vita comune "la coercizione al lavoro, creata dalla necessità esterna, e la potenza dell'amore" (ivi, p. 590), sarebbe un dato di fatto immodificabile e valido in assoluto, in quanto appunto basato su dinamiche psichi-che di carattere universale. Da ciò il profondo pessimismo di Freud che vede nell'analisi un mezzo di soluzione "razionale" del conflitto tra esigenze del Superio (l'istanza psichica che rappresenta la "normatività" sociale) e quelle dell'Es (l'istanza psichica che rappresenta l'istintualità energetica dell'individuo) attraverso l'organo di controllo e di mediazione qual è l'Io ("Dove era l'Es, deve subentrare l'Io": Freud, 1932, p. 190). In questo senso la nevrosi sarebbe un fenomeno psichico ineluttabile e sovradeterminato, destinato addirittura ad accrescersi col progredire del processo di "civilizzazione" (e non è un caso che Freud concluda il suo Disagio della civiltà con la centralità del Superio e con l'analogia tra Superio sociale e Superio individuale; anche se nella stessa opera -1929, p. 586 - cautamente afferma: "uno dei fatali problemi dell'umanità è se questo accomodamento - tra le pretese individuali e quelle civili collettive - sia raggiungibile in qualche particolare forma assunta dalla civiltà o se il conflitto sia irrisolvibile"). I continuatori di Freud (psicoanalisti e studiosi di psicoanalisi) hanno tentato di risolvere questo dilemma non accettando come ineludibile la nevrosi e il disagio psichico, ma vedendo come sia possibile superarlo. Semplificando possiamo dire che sono due gli orientamenti post-freudiani in materia: la corrente culturalista (che noi qui estendiamo anche ad altri studiosi come Malinowski, Mead, Benedict,

Kardiner, oltre gli esponenti classici della scuola come Sullivan, Homey, Thompson e in parte Fromm) e la corrente freudomarxista (vista qui negli esponenti principali come Reich e la scuola di Francoforte che annovera fra gli altri Fromm, Marcuse, Habermas). Entrambe queste correnti si appoggiano a determinanti esterne alla psicoanalisi per superare il dilemma, nella fattispecie o alle variabili culturali o alle variabili socioeconomiche che plasmano l'individuo e che sono viste all'origine della repressione, e quindi della nevrosi: nell'uno e nell'altro caso è possibile modificare o le condizioni culturali (perché la cultura è prodotta dall'individuo) o le condizioni socioeconomiche (compito più difficile, ma non impossibile, tramite il riformismo socialista o la rivoluzione marxista; idea peraltro già decisamente rifiutata da Freud: cfr. 1932, p. 179 s.). Entrambe queste correnti, è ovvio, dichiarano viziata dal relativismo della cultura dell'epoca o dallo stadio capitalistico e borghese della società di allora l'ipotesi freudiana di una ineludibilità della nevrosi legata al progresso civile e sociale.

La scuola culturalista contrappone "semplicisticamente" l'individuo alla società, vedendolo come elemento naturale, autonomo, influenzato da un sociale che muta nei diversi contesti socioeconomici e culturali; cioè viene data per scontata la naturale bontà della crescita umana (la natura è buona in quanto mira all'autorealizzazione, anche nel nevrotico). Pur tuttavia, siccome è l'uomo a determinare la cultura - causa ultima (ed imprecisata) della nevrosi - tocca ancora a lui tentare di trasformarla, trasformando - attraverso l'analisi, l'educazione, il cambiamento sociale - se stesso, i valori e i modelli culturali, i rapporti sociali. Inoltre, "la funzione storica del culturalismo è stata quella di correlare la psicoanalisi con la psichiatria, la sociologia e l'antropologia tramite la cerniera comune costituita dalla centralità dei rapporti interpersonali. Quella che si viene a sminuire è la priorità della dinamica intrapsichica, caratteristica dell'ottica psicoanalitica" (Vegetti-Finzi, 1986, p. 193).

A ben vedere quest'esito è inevitabile ogni volta che si passi dai "piani bassi" dell'inconscio o delle espressioni corporee ai "piani alti" della visione antropologica, culturale, sociale. Il problema è che uno sguardo dai "piani alti", se da una parte arricchisce il panorama (anche quello psicoanalitico, che infatti sfocia poi nella Psicologia dell'Io e del Sé), dall'altra non rende conto della complessità dei meccanismi interiori. Nella fattispecie dei culturalisti, la desessualizzazione della libido da loro operata, nonché la critica spietata all'istinto di morte e quindi alla pulsione aggressiva rivolta anche contro se stessi (aggressività da loro imputata alle condizioni socio-culturali della nostra società), in una parola la loro de-biologizzazione delle pulsioni sfocia in una visione idilliaca del rapporto uomo-società che in ultima analisi non riesce a spiegare la drammaticità del conflitto di base postulato da Freud (non è un caso che molti di loro - come Homey e Fromm - alla fine del loro percorso intellettuale approdino alla cultura orientale, in cui l'unità natura-ambiente-cultura sembra preservare meglio dal disagio psichico quelle popolazioni). Se in loro il termine "repressione" socioculturale sembra acquistare addirittura più peso della "rimozione" freudiana, questo stesso sembra ritorcersi contro l'individuo costretto ad una dinamica di maggiore controllo delle proprie pulsioni per creare una società meno repressiva (nel che si adombra una più massiccia e raffinata accentuazione dell'istanza superegoica, ancora più introiettata in una funzione egosintonica con l’io)

Analoga impostazione (le pulsioni spiegate attraverso la cultura e la storia, e non viceversa come in Freud) ed analoghe soluzioni (con l'accento sulle trasformazioni socioeconomiche, sulle dinamiche tra le classi prevalenti sulle dinamiche pur concomitanti dell'individuo) propone l'orientamento freudomarxista, ancora più variegato del precedente nella spiegazione e nei rimedi alla repressione sociale dei "bisogni" dell'individuo.

Ad es. Reich insiste sulla repressione della pulsione sessuale: una società autoritaria e sessuofobica riproduce continuamente autoritarismo e repressione, per cui è giocoforza accompagnare alla liberazione della sessualità dell'individuo la liberazione della società attraverso la rivoluzione politica, accompagnare cioè l'educazione sessuale alla radicale trasformazione politica, e quindi far reagire efficacemente l'una sull'altra la dimensione psicologica con quella sociale.

La Scuola di Francoforte analizza finemente come la cultura e la società borghese determinino la personalità autoritaria e l'asservimenlo dell'individuo (e quindi come la repressione sia un fatto culturale e socioeconomico teoricamente modificabile): è nei processi educativi e soprattutto nei rapporti familiari non intenzionali e coscienti che l'autorità funziona, si legittima, si produce, grazie appunto ai meccanismi inconsci (aggiunge Fromm, lo psicoanalista del gruppo) di complicità del sottomesso che introietta il Superio della persona con autorità. In questa visione il padre viene visto - almeno nel primo periodo, quello tedesco, contrassegnato da una critica radicale che idealizza la personalità rivoluzionaria come antidoto alla personalità autoritaria - come espressione e tramite della produzione dell’ autorità sociale (mentre la figura materna e femminile configurerebbe una struttura sociale più accettante e liberatoria: vedi la parte di Fromm nel volume a cura di Horkheimer, Studi sull'autorità e la famiglia, 1936); nel secondo periodo, invece, quello americano, mentre la critica sociale diventa riformista e alla personalità autoritaria-fascista si contrappone la personalità democratica genericamente intesa come quella tollerante nei confronti della diversità, il tramonto della figura patema viene assunto a significante della dissoluzione stessa dell'identità dell'individuo inghiottito nell'anonimato e nella massificazione dei rapporti tardo-capitalistici (cfr. Mitscherlich, 1970). La soluzione del dilemma bisogni individuali-repressione sociale è comunque ancora più sconfortante in questa impostazione oscillante tra determinismo psichico e determinismo sociale, o meglio in situazione di stallo per un determinismo psico-sociale che conduce all'irrazionalità e agli orrori del nazifascismo o dell'attuale società consumistica e di massa. Unico strumento di liberazione è lo sforzo critico dell'"intellettuale", ridotto comunque ad essere una "voce che grida nel deserto". È la sanzione, ben più definitiva che in Freud, dell'ineluttabilità della repressione, agghindata di velleità liberatorie che in ultima analisi si risolvono ancora una volta in compiacenza dell'Io alle esigenze di un Superio più generalizzato e mimetizzato. Siamo proprio al "Grand-Hotel Abisso", secondo la brillante definizione, da parte di Lukàcs, della Scuola di Francoforte.

Un suo continuatore di spicco, Marcuse, riprende il discorso rivoluzionario-utopistico di Reich ipotizzando una rivoluzione sociale che metta fine alla repressione attraverso una rivoluzione istintuale che ridia all'individuo il completo possesso del suo patrimonio istintuale, comprese (e soprattutto) le fasi pregenitali da Reich (e Fromm) considerate invece come le più facilmente esposte alla strumentalizzazione da parte delle esigenze sociali repressive. Il risultato finale di una tale impostazione, come risulta dalla storia recente, non può essere che l'utopia, con uniche espressioni concrete la demistificazione operata da studenti e intellettuali in genere e un forte senso di identità con gli oppressi. Ma, a livello metapsicologico, l'attacco frontale alla psicoanalisi da parte di Marcuse (specie nell'espressione della scuola culturalista giudicata troppo molle e soporifera) ha comunque un indubbio valore in quanto critica all'americana ideologia tecnocratica dell'adjustment a tutti i costì, cui si stava adattando la psicoanalisi d'oltre Atlantico.

Infine, tanto per citare un altro illustre epigono, un preciso riconoscimento della forza emancipatrice del discorso psicoanalitico viene peculiarmente riconosciuto da Habermas, il quale distingue una repressione socialmente necessaria da una repressione supplementare.

A conclusione di questo breve excursus storico-psicoanalilico non possiamo non evidenziare la particolare posizione di Fromm che ha fatto singolarmente parte di entrambe le correnti (o scuole) in modo del tutto originale. Questa originalità sembra consistere nel duplice riconoscimento della necessità di trasformazione di una realtà sociale analizzata non solo nelle determinanti socioeconomiche (retaggio della sua appartenenza alla Scuola di Francoforte, insomma del periodo di formazione), ma anche alla luce dei "bisogni" umani, validi in assoluto, dell'individuo inserito in quel dato contesto socioculturale, e quindi della necessità di trasformazione anche del singolo messo in parallelo con il contesto da cui lui è condizionato, ma che lui pure in parte condiziona. Identificando le determinazioni socioculturali con l'inconscio e la coscienza come funzione di compromesso, con Fromm la psicoanalisi si fa critica dell'ideologia, l'analisi del "carattere sociale "si fa analisi critica della società (cfr. Fromm, 1963 e 1964). È quindi insufficiente sia la teoria marxista, che non sembra riesca a spiegare la storia (cfr. Fromm ,1968), sia la psicoanalisi, che ha perso la sua carica eversiva e liberatoria (cfr. Fromm, 1971). Per questo egli cerca una soluzione superiore in una sorta di socialismo umanistico (Fromm, a cura di, 1975), che, puntando sulla "biofilia" (Fromm, 1985), la rivalorizzazione della figura materna e quindi di rapporti di parità e reciprocità tra i sessi (attraverso "L'arte di amare": 1963), il ritomo a relazioni umane meno improntate a tecnicismo, massificazione, immaturità (cfr. Fromm, 1969), in una parola puntando sulla modificazione dello stesso "inconscio sociale", riesca ad averla vinta sulla "necrofilia" umana (un inconscio anch'esso più globale ed umanistico della biologistica aggressività freudiana, contro cui affila la sua critica: cfr. Fromm, 1975).

Siamo adesso in grado di vedere meglio i termini dell'assunto psicoanalitico del conflitto - mediato dall'inconscio - tra individuo-società e natura-cultura. La sua soluzione sembra in realtà essersi fatta più ardua, stando al dato di fatto (citato inizialmente) di un aumento del disagio psicosomatico (connesso ad una determinante sociale, qualunque natura si voglia a questa attribuire, secondo tutte le "scuole" di psicoanalisi) di contro ad un "adattamento" psichico sempre maggiore alla nevrosi ("modello di salute" oggi: cfr. Modigliani, 1983). In un tentativo di spiegazione metapsicologica di tale fenomeno, spiegazione basata sulla storia - in queste righe accennata - della stessa riflessione psicoanalitica sull'argomento (vista quindi non solo come variabile dipendente ma anche come oggetto di interpretazione psicoanalitica) potremmo evidenziare i seguenti elementi:

a) la rottura dell'unità uomo-natura, che da Freud (riprendendola dai romantici) è posta alla base della nevrosi (cfr. Brown, 1968, p. 136), oggi, grazie alla possibilità della tecnologia che domina la natura (inizialmente vissuta dall'uomo come causa ineliminabile dì dipendenza e di angoscia) e grazie alla rapacità del desiderio (alimentato da una società capitalistica passata dall'accumulazione al consumismo, cioè regredita da una fase anale ad una fase orale), si sta trasformando in una contrapposizione in apparenza di sviluppo, in realtà di situazione (della natura definitivamente dominata, e quindi dell'unità binominale): da ciò l'accrescersi del disagio, tanto più profondo quanto meno percepito; i successori di Freud sembrano aver preso atto dell'ulteriore devastante degrado del rapporto individuo-società, con la presa di coscienza degli orrori progressivi di una società contro cui l'individuo, pure esaltato come fautore di creatività e di cambiamento, è costretto a soccombere (lo stesso dicasi dell'esaltazione della "razionalità" sull'istinto);

b) l'individualismo "salvifico" della "nuova" psicoanalisi, che esalta le capacità di trasformazione dell'uomo riguardo a se stesso o alla società, si inserisce, come riflesso e come terreno di coltura, nella "società dell'individualismo" di oggi, in cui si è perso ogni senso di solidarietà sociale e in cui il disagio (da rottura con gli altri, vista in apparenza come meno repressiva) è talmente rimosso, per meccanismo di difesa del senso di fallimento e per ulteriore senso di colpa per lo stesso, da dare origine ad una depressione inconscia sempre più pervasiva e scacciata dalla coscienza che può trovare sfogo solo in una sempre più dirompente somatizzazione; è altrettanto evidente lo scivolamento della riflessione psicoanalitica dai temi inizialmente incentrati sulla dinamica dell'inconscio (senso di colpa, rapporto con le figure o le immagini parentali, meccanismi di difesa, ecc.) agli stessi temi visti come "reattivi", "socializzati", riportati a livelli di rapporto interpersonale;

c) rottura con la natura e con gli altri, depressione inconscia, repressione attuata con modalità più sottili e pervasive (repressione non solo della pulsione sessuale, nonostante l'apparente liberalizzazione, che in realtà è permissivismo e che rende addirittura più lungo - come dice A. Freud - il percorso per una struttura dell’ Io più salda; ma anche e soprattutto della pulsione aggressiva, forse ineliminabile e che oggi sembra esplodere in violenza individuale e sociale ancora più inspiegabile dati i livelli di "progresso" raggiunti), rimozione più profonda: tutti questi elementi chiamano in causa quella struttura psichica che è stata definita Superio, che diventa così il nucleo centrale del nuovo disagio, di fronte alla cui forza repressiva - che trova una collusione con un Io sempre più debole, l'Io di un individuo massificato, strumentalizzato, costretto alla produttività e all'efficienza - anche l'analisi diventa impotente o viene sentita come inutile; d'altra parte che la repressione sociale, dinamicamente posta da Freud nell'inconscio senza tempo né spazio, sia stata addolcita in una "repressione funzionale" dai culturalisti ed in una "repressione strutturale" dai francofortesi, sembra più un'operazione di facciata che facilita il gioco di un Superio più invasivo;

d) come la nevrosi di conversione si trasformi in nevrosi di carattere, così più in generale l'attenzione per la dinamica dell'inconscio si sposta ad una maggiore centralità della tematica del carattere e in psicoanalisi e nella società: in tal modo il riferimento non è più all'inconscio, al passato, alle pulsioni, ma alla configurazione attuale strutturale dell'individuo, il quale, benché socialmente e culturalmente determinato, può (e deve) superare le contraddizioni che egli stesso crea. Quanto costa questa operazione di portare il problema di base alla coscienza e alla razionalità? Forse il costo è rappresentato proprio dalla malattia psicosomatica che possiamo leggere attraverso questi stessi strumenti psicoanalitici che inizialmente potevano sembrare astratti ed ininfluenti.

Psicoanalisi e disagio psicosomatico

Passando dalla storia della psicoanalisi alla psicoanalisi come storia del singolo soggetto psicosomatico ritroviamo, infatti, come massimamente euristici, gli stessi elementi metapsicologici.

È bene subito precisare che in verità stiamo esponendo un'ipotesi sul funzionamento psichico di tali malattie, ipotesi però che trova conferme, indirette e collaterali, negli studi di psicologia e medicina clinica, comportamentale, sperimentale.

Vari studi prospettivi e retrospettivi, con tutti i limiti inerenti alla loro metodologia, concordano tuttavia uniformemente nell'indicare come specifici fattori di rischio per le malattie psicosomatiche (in particolare il cancro):

- peculiari contesti affettivi: ad es. clima e costellazioni familiari (cfr. Thomas e Greenstreett, 1972; Thomas e Duszynski, 1974; Thomas, Duszynski e Schaffer, 1979; Stierlin, 1989);

- peculiari stili di vita e caratteristiche di personalità: ad es. Tipo A e Tipo C (cfr. Friedman e Rosenman, 1959; Friedman e coli. 1984; Le Shan, 1966);

- peculiari situazioni psicosociali: ad es. situazioni di lutto e comunque di grave stress (cfr. Antonelli e Shannon, a cura di, 1981; Pancheri e Biondi, a cura di, 1987);

- peculiari fattori psicofisici o caratteristiche di funzionamento psichico: ad es. alexitimia, uso massiccio di rimozione o forclusione, aggressività rivolta contro di sé (cfr. Bahnson e Bahnson, 1966; Grossarth-Maticek, 1982).

Questa messe di dati è stata inserita ora in un modello neuropsicobiologico (cfr. Biondi, 1984; Persico, Janiri e Tempesta, 1989), ora in un modello neuropsicofisiologico (cfr. Ruggeri, 1988), ora clinico-comportamentale (cfr. Eysenck, 1986) o psicosociale (cfr. Hobbs e coll., 1984), ora sistemico-relazionale (cfr. Onnis, a cura di, 1988). Noi lo inseriamo in un modello psicoanalitico, precisando che si tratta di un'ipotesi ancora da sgrossare e sistematizzare. La psicoanalisi, per sua natura e quindi dai suoi inizi, ha sempre cercato di affrontare in modo nuovo il rapporto soma-psiche. Oltre gli iniziatori già citati -Freud e i suoi studi iniziali sull'isteria, Groddeck e la sua concezione dell'Es che attraversa il corpo e lo spirito unificandoli, Alexander e le sue varie costellazioni conflittuali per le diverse malattie psicosomatiche, Reich e la sua immagine del cancro come atrofia del sistema vitale e ribellione paradossale alla morte - possiamo accennare ad altre teorie, ovviamente in modo sommario (cfr. Sedran, in corso di stampa; AA.VV., 1986). Anzitutto la Scuola di Parigi (con Marty come suo principale esponente), che nell'economia o "ordine psicosomatico" (Marty, 1980) vede appunto una diminuzione della funzione mentale tradotta in scarsi investimenti e non gusto per la vita; attivare terapeuticamente l'attività psichica (la produzione di fantasmi, magari persecutori ed ansiogeni) equivale a mobilitare le difese psicologiche che a loro volta sosterranno le difese immunologiche (una ricerca è in corso a Parigi e a Ginevra per verificare tale rapporto tra depressione psichica e depressione immunitaria). Sostanzialmente analoga è l'ipotesi lacaniana (cfr. Lacan, 1979 e 1983), che vede i fenomeni psicosomatici situati al di fuori del registro delle strutture nevrotiche e riguardanti il reale, con una sorta di "gelifìcazione" del significante nel corpo del soggetto che porta quest'ultimo ad una sottomissione acritica e regressiva a significanti imposti dall'esterno (un po' come il neonato dalla madre), che ne impedisce la dialettica interna e provoca un cortocircuito responsabile della lesione somatica (cfr. Guir, 1984, che illustra pure un interessante lavoro di Fliess del 1897 sul "rapporto tra il naso e gli organi genitali femminili", la prima "organologia" che può anche aver ispirato Freud).

Per la psicoanalisi tedesca ci si può riferire all'opera di Ammon (1977), che - all'insegna di una psichiatria dinamica ed umanistica - vede la corporeità dell'individuo coinvolta con l'apprendimento psichico e la spiritualità umana, e che sfocia terapeuticamente nella psicoterapia di gruppo e nella danza umano-strutturale (cfr. Ammon, 1987/88).

Per la psicoanalisi italiana - oltre a Fornari ( 1985) che vede "miticamente" nel cancro il "bambino-parricida" (così come il sudamericano Chiozza lo vede come bambino-mostro di una fantasia inconscia di accoppiamento endogamico: cfr 1981 ) - ci riferiamo all'ipotesi di Modigliani (del cui Gruppo Romano facciamo parte) che vede nella malattia psicosomatica una regressione ancora maggiore che nella psicosi, in quanto caratterizzata da fissazioni a stadi ancor più remoti, cioè neonatale e prenatale, di indifferenziazione dall'oggetto e con povertà psichica e sviluppo precocissimo del Superio col quale collude l’io; il percorso terapeutico è, in tale visione, necessariamente più lungo ed articolato, prevedendo una tecnica più libera del tradizionale setting psicoanalitico (magari con l'introduzione di strumenti psicofisici, quali il rilassamento, o di animazione e visualizzazione, o più in generale "suggestivi", utili ad aggirare le difese del Superio e a favorire l'inizio di un transfert molto difficile in questi pazienti: cfr. Garofalo, 1988) e prevedendo tra le sue tappe anche la formazione di tratti di psicosi e neonevrosi (cfr. Modigliani, 1981,1983, 1985; Sedran, cit.).

Raccogliendo questi vari elementi in alcune idee di base unificanti, troviamo significativamente una coincidenza con le problematiche fatte risalire nel punto precedente a proposito del rapporto psico-analisi-ambiente-società. La specificità della malattia psicosomatica sembra infatti caratterizzata da: a) regressione ad una unità somatopsichica indifferenziata, causa di estinguimento psichico individuale; b) apparente esaltazione della dimensione individualistica di un Io reale onnipotente, con difficoltà di profondo coinvolgimento psichico e di rapporto interpersonale autentico; e) strutturazione psicodinamica essenzialmente superegoica, con depressione latente, tanto più difficile da riconoscere quanto più sono utilizzati i meccanismi di rimozione e forclusione; d) specificità di caratterologia psicosomatica, che per definizione fa riferimento alle espressioni coscienti e comportamentali nel momento in cui si cerca di studiare il fenomeno (la dimensione inconscia è difficilmente raggiungibile date le difese dello psicosomatico).

Analizziamo questi singoli elementi, rapportandoli alla problematica so-cioambientale e socioculturale oggi esistente, in vista di possibili rimedi terapeutici.

a) La regressione a livello prenatale, da simbiosi con l'oggetto (la madre), può ben essere assunta a simbolo di quella integrazione con la natura propugnata da tanti movimenti culturali come compensazione all'opera sempre più distruttiva dell'uomo; mentre a livello reale essa si dispiega nella massificazione dell'individuo, che si perde in una unità psicosociale indifferenziata, apparentemente fonte di creatività e rinascita continua, in realtà mortifera, rispondente a quella necrofilia diffusa oggi che distruggendo l'ambiente distrugge anche l'uomo (il che fa presupporre che i due elementi non sono contrapposti, e che a livello psicodinamico essi rappresentano l'esito di un unico processo: cfr. Funk, 1987/88). Una simile regressione può rappresentare la dimensione suprema dell'istinto di morte che giustamente si critica nella dimensione biologica freudiana, ma che resta a nostro parere un nodo fondamentale ed ancora irrisolto della riflessione psicoanalitica (come già profeticamente aveva visto Freud: cfr. 1929, p. 630) e che sfocia nella realtà sociale in dimensioni di aggressività e violenza sempre al di sopra di ogni immaginazione (cfr. Freud, 1932a; Fromm, 1975; e per "società violenta" dei nostri giorni, la cronaca quotidiana).

D'altra parte questa massificazione sviluppante violenza ha un corrispettivo urbanistico nel tessuto urbano delle grandi città o metropoli, i cui subborghi - nota Lorenz, in un accattivante libretto che traduce in termini etologici-biologici i concetti psicosociali che qui analizziamo (1986) - con le case standardizzate e dallo sviluppo caotico sono simili al panorama istologico delle cellule cancerose, immagine non solo dell'immaturità" psichica oggi dilagante, ma anche del degrado ambientale totale (p. 86).

b) La difficoltà di coinvolgimento affettivo e relazionale, riscontrata come dicevamo nella personalità psicosomatica, nutre e si nutre della tendenza - sottolineata sempre da Lorenz (cit., p. 27s. e 51 ) nei centri urbani sovraffollati - verso il not to get emotionally involved del non lasciarsi andare ai sentimenti, dell'estinguersi addirittura degli stessi. D'altronde l'enfasi sull'individuo e sui suoi diritti, così come sulle sue capacità di risolvere anche i problemi sociali più vasti (sostenuta e dal progresso tecnologico incalzante e dalla stessa "nuova psicanalisi" di cui sopra), non può non portare ad un 'enfasi dell'individualismo e allo spezzarsi di ogni legame di solidarietà (di cui oggi appunto si lamenta la "cultura"). In questo individuo, ricco potenzialmente di tutto se stesso, ma in realtà guidato da meccanismi occulti di persuasione e controllo, la coscienza del risultato finale di impoverimento generale non può a sua volta non provocare un senso di disperazione e depressione magari inconscia (oggi "male del secolo") di vuoto di "oggetto" (in senso psicoanalitico), di impotenza da repressione sottile che accentua quell'angoscia definita dai neofreudiani "sentimento di impotenza in un mondo percepito come ostile e minaccioso" (cfr. Garofalo, 1979). Siamo così al punto di partenza della soluzione del problema proposto dai culturalisti, punto di vista che sembra sia stato seguito dalla cultura occidentale, soprattutto di spirito americano, per una sorta di collusione tra potere socioeconomico e potere psicoanalitico.

e) Adattamento repressivo della pulsione e accresciuto autocontrollo con conseguente senso di colpa e depressione, ed inoltre sublimazione coatta verso mete conformistiche di successo ed efficienza in condizioni di sempre più stressante competizione; richiamano dinamicamente - come si diceva - all'istanza psichica che svolge queste funzioni: il Superio, che abbonda nella società d'oggi, e che asservisce l'Io rendendolo debole e confuso. Come afferma Erikson (cit. da Roazen, 1973, p. 203s.): "il paziente d'oggi soffre maggiormente per il problema di che cosa dovrebbe credere e di che cosa dovrebbe - o forse potrebbe - essere o diventare; il paziente dei primi tempi della psicoanalisi, invece, soffriva soprattutto delle inibizioni che gli impedivano di essere ciò che era o che pensava di sapere di essere".

Questo controllo generalizzato e massiccio provoca più facilmente, per usare i termini di Lacan, l'impossibilità di una dialettica interna alla psiche, con una collusione tra Io e Superio, che rende ancora più difficile la coscientizzazione del conflitto provocando il cortocircuito mente-soma. Ecco, allora, come dice Cremerius (1979, p. 78), la necessità di riformulare la meta terapeutica proposta da Freud (e già citata) nei nuovi termini: "Ciò che era Superio, deve diventare Io"; ma tenendo conto del profondo pessimismo di Freud in merito alla possibilità di influire terapeuticamente su un Superio estremamente severo, su un preponderante senso di colpa (cfr. Freud, 1922 e 1925), non si può sperare molto dalla terapia classica (cfr. Cremerius, ivi.pagg.75-117). d) Tutte queste caratteristiche si assommano stabilmente in quella configurazione o strutturazione di "carattere psicosomatico" che oggi si comincia a delineare accanto al classico "carattere nevrotico" e "carattere psicotico". Tra parentesi, si sottolinea ancora una volta che il termine carattere è un prodotto sostanzialmente post-freudiano, in quanto centrato più sulle caratteristiche della "corazza" caratteriale esterna, più vicina all'Io, anziché sulla dinamica interna delle pulsioni (anche se il concetto è già utilizzato parzialmente da Freud).

Così questo "carattere psicosomatico" viene delineato in un interessante volume di Bergeret (1984), che lo ricollega anche lui ad una primitiva fase di indifferenziazione somatopsichica: "L'economia psicosomatica corrisponde, come negli stati limite, ad una modalità di trasformazione della libido oggettuale in libido narcisistica, ma la regressione psicosomatica, molto più spinta, trasforma il linguaggio psichico in linguaggio somatico.. .Nel registro psicosomatico...non c'è simbolizzazione, il linguaggio del corpo non solo è utilitaristico, come precisano P.Marty e M. de Milzare, ma diventa espressione di un vero pensiero operativo. L'attività fantasmatica si riduce automaticamente, accompagnandosi al fenomeno di deses-sualizzazione così spesso descritto. Le tendenze aggressive sono liberate sotto forma di manifestazioni corporee; per contro i fantasmi aggressivi sono tenuti lontani dalla sfera corporea...Ciò che caratterizza in modo veramente originale il carattere psicosomatico è il modo di funzionamento meccanizzato del pensiero, la razionalizzazione dei comportamenti attraverso cause esterne - esse stesse meccaniche e anaffettivizzate -, la scarsità d'impatto degli affetti, la grande abilità, da parte di tali soggetti, sia nel mostrarsi all'oggetto come se non provassero emozioni, sia nel creare presso l'altro e nell'altro una vera emozione" (p. 213).

Concludendo questa parte possiamo dunque dire che, sia alla luce della storia della psicoanalisi che a quella della storia psicoanalitica del malato psicosomatico, c'è una corrispondenza di tematiche (o di problematiche) che impongono una considerazione psicoanalitica della profonda unità uomo-ambiente-società e, nello stesso tempo, una considerazione storico-sociale della stessa psicoanalisi. Quest'ultima esigenza ribadita da neofreudiani e francofortesi, si rivela in tal modo il contributo più importante e decisivo di questi ultimi (in amplificazione, peraltro, delle intuizioni freudiane al riguardo). E cioè è a livello metapsicologico che va vista l'analisi del rapporto individuo-società-ambiente portata avanti dal post-freudismo: ogni teoria psicoanalitica va rapportata alla natura storico-culturale di quella data società, e quindi, il rapporto individuo-ambiente-società non va analizzato solo per le determinanti socio-culturali, ma anche per quelle psichiche e metapsichiche che sono inserite nell'inconscio sociale e che influenzano anche la concezione psicoanalitica del disagio. D'altra parte l'accentuazione freudo-marxista sul cambiamento della società va sempre tenuta in conto per non far pesare sull'individuo il peso del cambiamento del mondo intero, pur se va riscritto in una dimensione non unicamente politica.

Come si possono tradurre queste indicazioni teoriche in indicazioni più pratiche, utili a sostenere di fatto un qualche cambiamento, anche in vista di una possibile "cura" del "nuovo" disagio psicosomatico?

Psicoanalisi ed ecosistemica

Cosa può fare la psicoanalisi per il contemporaneo "disagio della civiltà"?

Intanto non si dimentichi che, nonostante le necessarie elaborazioni (ed elucubrazioni, talvolta) teoriche, la psicoanalisi si è sempre posta primariamente come clinica, con il precipuo compito, nobile e difficile, di aiutare il paziente che soffre, sia nella sua sofferenza di carattere nevrotico o psicotico o psicosomatico. Resta però il dubbio - essendo essa nata come cura specifica del disturbo nevrotico - se la sua validità terapeutica possa essere estesa anche ai "nuovi" disturbi, specie adesso che la patologia psicosociale si sta incistando anche a livello psicosomatico. La risposta è affermativa, ovviamente con le necessarie precisazioni. Come il metodo psicoanalitico si è efficacemente spostato anche verso il trattamento del disturbo psicotico (grazie, tra gli altri, all'opera di Abraham, della Klein, della Sechehaye, di Sullivan), è possibile pure spostarlo verso il trattamento del disturbo psicosomatico se esso (come si accennava) viene rivisto nelle mete, nelle tecniche e modalità di setting, nell'apertura ad altre dimensioni (con recupero ad es. di quella corporea, auspicata già per ogni trattamento da alcuni dissidenti come Reich) e ad altri strumenti (per alcune indicazioni, cfr. Garofalo 1988). (Non si dimentichi, peraltro, che anche per Freud il confronto con la dimensione transindividuale delle ultime opere portò a mettere in crisi il suo originario impianto teorico in cui prevaleva la contrapposizione delle pulsioni).

Ma la pratica clinica non può essere bruta. L'ideologia dello psicoterapeuta, anche se non disvelata, ha un'enorme importanza, un influsso sul discorso e sul decorso psicoterapeutico. Questa ideologia non può fare a meno di considerare il dilemma di fondo da noi finora dibattuto, cioè di una presa di posizione sul rapporto individuo (inconscio) ambiente-società. Allora cosa può fare l'analista per aiutare, al suo livello, nella cura e nella prevenzione del disturbo psicosomatico, che investe non solo la dimensione individuale, ma anche quella sociale?

A parere di chi scrive, lo psicoanalista deve innanzitutto "coscientizzare" la problematica psicosociale che sta dietro alla sofferenza psichica per orientare meglio il proprio intervento. Questo significa che, paradossalmente, egli deve aiutare a superare la dimensione individuale totalizzante, aprendo una finestra, come dice Hillman, nel recinto chiuso del suo studio e aprendosi egli stesso al sociale. Come? Ad esempio: facendosi all'esterno portavoce coraggioso e responsabile delle forme nuove che assume il silenzioso disagio dell'individuo; collaborando ai nuovi "movimenti" politico-sociali per la natura, l'ambiente, la non-violenza e il disarmo, per una migliore "qualità della vita", ecc., movimenti che rappresentano una sorta di "razionalità sociale" (Perrow) o una "esigenza di ricalibrazione" (Ingrosso) di fronte a meccanismi sempre più potenti di autodistruzione dell'umanità; operando per una dimensione clinica anche nel pubblico, e non solo nel privato, e per una dimensione preventiva che per essere veramente tale ed efficace non può che riguardare tutti gli aspetti coinvolti nella problematica salute/malattia (cfr. Garofalo, 1989), in particolare sostenendo la particolare qualità del processo educativo visto anche dal "pessimista" Freud come unico rimedio atto a contrastare i mali della civiltà (cfr. Freud, 1932, p. 254s; cfr. anche Benedetti e Folin, a cura di, 1989).

È ovvio che l'azione psicosociale dell'analista non possa comunque che essere limitata, specialmente se dovesse semplicemente rimanere, alla maniera dell'"intellettuale" francofortese, l'oraziano "uomo impavido che si erge tra le rovine di un mondo che cade a pezzi". Allora la domanda può essere rivoltata chiedendosi: cosa può fare la società perla problematica psichica? E ' una domanda, oltre che legittima, necessaria, vista la scarsa considerazione della salute psichica nella politica sanitaria, e tanto più urgente considerando le deflagranti nuove forme di disagio psichico fondate su una rimozione più profonda ed inconscia. La risposta si traduce quindi nella necessità che si aprano spazi sempre più ampi al discorso psichico, alla considerazione sociale, culturale, politica dell'intervento psicologico non solo nella sua dimensione clinica, ma anche e soprattutto nella dimensione preventiva da affrontare con tutte le metodologie psicologiche e psicosociali (cfr. Garofalo, 1989). Anche in questo caso possiamo esemplificare come si possa prevenire il disagio psichico e promuovere attivamente la salute mentale: sostenendo un'educazione socioaffettiva di base; intervenendo per il cambiamento anche strutturale dei modi di vita, abitudini, comportamenti che incidono sulla salute; appoggiando le nuove idee ed atteggiamenti per una concezione più positiva di salute integralmente considerata (nell'unità tra corpo-mente-natura-cultura); assicurando una collaborazione interdisciplinare per un effettivo ed efficace miglioramento della qualità dei rapporti umani, urbanistici, ambientali in senso stretto.

Siamo così arrivati al nocciolo della questione, e cioè il cambiamento della mentalità (della cultura), cui tutti possono e debbono dare il loro contributo. In prima fila gli "intellettuali", i rappresentanti della comunità scientifica, di quella "scienza" che tanto fascino esercita e sull'uomo della strada e sui responsabili politici. Eppure anche per essi è necessario un mutamento di mentalità, che in termini teoretici si definisce un cambiamento epistemologico. Per poter collaborare interdisciplinarmente, occorre una nuova mentalità che coinvolge anche la concezione "scientifica" di individuo, ambiente, società, che in queste pagine abbiamo affrontato in un'ottica psicoanalitica, sottoposta anch'essa - come abbiamo visto - al cambiamento socioculturale; un'ottica che ha rinnovato la filosofia della scienza nel nostro secolo ma che deve anch'essa allargarsi alle nuove idee che attraversano oggi tutte le discipline. Questo sforzo congiunto, teorico e pratico, tra più campi del sapere, eviterebbe fra l'altro quella dicotomia che investe lo stesso psicoanalitico clinico visto estremisticamente ora come feticcio di salvezza ora come rudere antiquato.

In concreto: mente ed ambiente non possono più essere considerati monisticamente e a compartimenti stagni. Con la psicoanalisi il concetto di mente si è allargato a tutta la considerazione psichica, anche inconscia, recuperando una buona parte che prima praticamente veniva tagliata fuori dalla considerazione scientifica dell'uomo (cfr. Jervis, 1989). Con essa anche il concetto di ambiente si è allargato, in quanto esso non viene più considerato, come nel modello biologico, qualcosa di esterno all'individuo, bensì un'interfaccia comune tra "esterno" ed "interno" dell'individuo. A questo punto anche le scienze biologiche non possono più considerare "mente e natura" secondo la tradizionale visione di stampo positivistico-meccanici-stico, pena una ridottissima efficacia sia nell'opera di trasformazione psicosociale che in quella socioambientale. Un'ecologia moderna non può che essere ecosistemica, cioè considerare insieme i diversi sottosistemi, rinnovandosi per collaborare insieme e così rispondere alla "sfida della complessità" (Bocchi e Ceniti, a cura di, 1985), imposta alla scienza dalla società "complessa" di oggi. Del resto, anche a voler vedere la nevrosi ed ogni altro disagio psichico come uno squilibrio da disadattamento per un mutamento culturale troppo rapido, frenetico, inassimilabile (cfr. Tiezzi, 1984), anche questa visione biologistica non può fare a meno di considerare l'unità dell'interazione mente-soma, individuo-ambiente, natura-cultura. Se è opportuno che la psicoanalisi approfondisca ancora le proprie questioni irrisolte - nella fattispecie ci sembrano essere le dinamiche della socializzazione, il senso e la portata dell'aggressività e del cosiddetto "istinto di morte", i vari livelli di funzionamento mentale (cfr. Majore, 1975 e la sua interessante "analisi mentale") - è altrettanto opportuno che una visione autenticamente ecologica approfondisca le varie problematiche aprendosi con una mentalità rinnovata anche alle problematiche psichiche.

Così si esprime un pioniere al riguardo: "Mentre buona parte di ciò che le università insegnano oggi è nuovo e aggiornato, i presupposti o premesse di pensiero su cui si basa tutto il nostro insegnamento sono antiquati e, a mio parere, obsoleti. Mi riferisco a nozioni quali: a) il dualismo cartesiano che separa la "mente" dalla "materia"; b) lo strano fisicalismo delle metafore che usiamo per descrivere e spiegare i fenomeni mentali: "potenza", "tensione", "energia", "forze sociali", ecc.; c) il nostro assunto antiestetico, derivato dall'importanza che un tempo Bacone, Locke e Newton attribuirono alle scienze fisiche: cioè che tutti i fenomeni (compresi quelli mentali) possono e devono essere studiati e valutati in termini quantitativi. La visione del mondo - cioè l'epistemologia latente e in parte inconscia - generata dall'insieme di queste idee è superata da tre diversi punti di vista: a) dal punto di vista pragmatico è chiaro che queste premesse e i loro corollari portano all'avidità, a un mostruoso eccesso di crescita, alla guerra, alla tirannide, e all'inquinamento.
In questo senso, le nostre premesse si dimostrano false ogni giorno...; b) dal punto di vista intellettuale, queste premesse sono obsolete in quanto la teoria dei sistemi, la cibernetica, la medicina olistica, l'ecologia, e la psicologia della Gestalt offrono modi manifestamente migliori di comprendere il mondo della biologia e del comportamento; e) come base per la religione le premesse che ho menzionato divennero chiaramente intollerabili e quindi obsolete circa un secolo fa...Ma già nel Settecento William Blake capì che la filosofìa di Locke e di Newton poteva generare solo "tenebrosi mulini satanici" (Bateson, 1984, p. 285s.). Ed ancora: "Oggi è pacifico che...l'unità di sopravvivenza non è più l'individuo e la specie, ma è l'organismo più l'ambiente. Stiamo imparando sulla nostra pelle che l'organismo che distrugge il suo ambiente distrugge se stesso. Se ora modifichiamo l'unità di sopravvivenza darwiniana fino ad includervi l'ambiente e l'interazione fra organismo e ambiente, appare una stranissima e sorprendente identità: l'unità di sopravvivenza evolutiva risulta coincidere con l'unità mentale...L'ecologia, nel senso più ampio, appare come lo studio dell'interazione e della sopravvivenza delle idee e dei programmi nei circuiti", visto che è la mente ad avere lo stesso processo stocastico della natura, e non viceversa (Bateson, 1976, p. 503). Oppure ancora: "Abbiamo un assoluto bisogno di una scienza che analizzi l'intera questione dell'adattamento e della assuefazione a tutti i livelli" (da ciò l'importanza del problema adattamento nella teoria e nella pratica psicoanalitica e nel suo collegamento con altre scienze); "forse l'ecologia è l'inizio di una simile scienza, benché gli ecologi siano ancora ben lungi dallo spiegarci come sfuggire alla corsa agli armamenti atomici. In linea di principio, né il cambiamento genetico casuale accompagnato dalla selezione naturale né, per quanto riguarda il pensiero, i processi casuali di tentativi ed errori accompagnati dal rinforzo selettivo agiranno necessariamente per il bene della specie o dell'individuo. E a livello sociale non è ancora sicuro che le invenzioni e gli stratagemmi che vengono premiati nell'individuo siano necessariamente vantaggiosi per la sopravvivenza della società; e, per converso, le linee politiche scelte dai rappresentanti della società non sono necessariamente vantaggiose per la sopravvivenza degli individui" (Bateson, 1984, p. 231). Se è vero che "l'uomo è solo una parte di più vasti sistemi e che la parte non può controllate il tutto...è tuttavia possibile che il rimedio per i mali della finalità cosciente si trovi nell'individuo. C'è quella che Freud chiamava la strada maestra verso l'inconscio; egli si riferiva ai sogni, ma io ritengo che si dovrebbe mettere insieme e i sogni e la creatività dell'arte, o la percezione dell'arte, e la poesia e le cose di questo genere. E insieme ci metterei anche il meglio della religione" (Bateson, 1976, p. 452s.); come per l'evoluzione biologica, cioè, anche per il pensiero, il cambiamento culturale, l'educazione ci vuole un equilibrio tra rigore conservativo e immaginazione creativa.

L'opera pionieristica appunto di un Bateson o di un Lorenz, che uniscono competenze di biologia, antropologia, etologia, psicologia, ecologia, è un valido esempio di come ci si possa muovere per una visione integrale, ecosistemica, della realtà che vogliamo trasformare per il benessere individuale e collettivo.

A questa nuova epistemologia si sono certamente ispirati gli organizzatori di questo Convegno-Dibattito che, come piccolo tassello, realizza in concreto il confronto interdisciplinare auspicato come unica soluzione ecologica vincente, che peraltro solo una visione autenticamente umanista può sostenere.

Da parte mia, con quest'intervento ho voluto sottolineare come una considerazione psicoanalitica attenta del disturbo psicosomatico importi una considerazione più estesamente ecologica, il cui rinnovamento è dato da una nuova epistemologia comune a tutte le scienze della natura e dell'uomo (cfr. Prigogine e Stengers, 1985), compresa la psicoanalisi che in tal modo può forse superare l'impasse di una contrapposizione irrisolta individuo-ambiente-società.

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* Didatta, Docente e Socio Fondatore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della S.P.I.G.A. (Società di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppo-Analisi) di Roma.

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