Indice generale

PSICOANALISI NEOFREUDIANA

A cura dell' International Foundation Erich Fromm
Periodico quadrimestrale
anno XX numero 3 speciale
Registrato al Tribunale di Prato il 01/06/1988 al n. 133
Comitato Scientifico - Coordinatore: Irene Battaglini

Stampato in proprio - diffusione via Web
Direttore Responsabile: Ezio Benelli
Editing: Irene Battaglini
Polimnia - Musa della narrazione

CITTÀ, UN SEGNO DELL'UOMO

Delfo Del Bino *

L'uomo e il simbolo

L'uomo ha bisogno di simboli. Essi racchiudono il suo conoscere. In essi riconosce se stesso.

Il suo cammino verso la conoscenza è stato scandito dai simboli, è avvenuto mediante la costruzione inconsapevole di un sistema simbolico, con il quale egli ha potuto orientare le sue attività, dapprima dirette a soddisfare i bisogni più elementari, in seguito rivolte alle avventure speculative del suo pensare.

Senza i simboli la sua conoscenza non avrebbe potuto progredire. Senza la formazione di sistemi simbolici non avrebbe potuto governare la complessità delle esperienze accumulate durante le sue escursioni nell'ignoto, né rendersi ragione di ciò che lo circondava e di ciò che egli, in quell'universo di suoni, di colori, di oggetti, di emozioni, di idee, rappresentava.

È presto detto: l'uomo deve il suo successo di animale pensante, ai Simboli ed ai sistemi simbolici che la sua mente ha saputo costruire.

Ciascuno di noi, consapevolmente o no, usa i simboli, fa ricorso alle strutture dell'immaginario ed alle attitudini simbolizzanti dell'immaginazione. Nessuno può oggi disconoscere la presenza di realtà così efficientemente attive. Insieme ad Alain Gheerbant, potremo dire che "affermare di vivere in un mondo di simboli è poco, perché un mondo di simboli vive in noi".

L'espressione simbolica traduce lo sforzo dell'uomo per decifrare e dominare un destino che gli sfugge nell'oscurità che lo circonda. Oggi si è consapevoli del fatto che la cosiddetta "coscienza storica" svolge un ruolo qualitativamente e quantitativamente assai modesto se rapportato alla coscienza integrale dell'uomo. È lecito affermare - in accordo con Mircea Eliade - che tanto più una coscienza è viva, tanto più essa cerca di superare la contingenza per travalicare la propria storicità e sospingersi nell'universale.

Un luogo formato di oggetti, di suoni, di colori, combinandosi con l'emozione di un avvenimento vissuto, si trasforma in simbolo. Come tale la sua mente lo trattiene per restituirlo ogniqualvolta si presenti l'occasione di utilizzarlo. Così quel simbolo, senza alcun particolare sforzo compiuto, ma solo perché sollecitato da un pensiero, da un'immagine, da un suono, abbandona il suo lungo letargo e ritorna vivo e vigoroso a riprodurre ancora immagini, suoni ed emozioni che sembravano perdute, ma che erano soltanto nascoste e tacevano quietamente dentro di noi.

Ma i simboli, questi misteriosi veicoli della memoria e della conoscenza, posseggono molte altre proprietà. Vi sono simboli inquietanti, altri stimolanti, altri ancora rassicuranti. La presenza di simboli familiari, può conferire serenità, tranquillità, sicurezza.

Un "luogo" con le sue caratteristiche particolari, irripetibili, può divenire un simbolo nella vita di un uomo. E può essere un simbolo familiare, rassicurante. La vecchia città, quella nella quale uomini della mia età hanno vissuto la loro infanzia o la loro fanciullezza, era carica di simboli rassicuranti ed essa stessa era un simbolo familiare, rassicurante. In essa era facile ritrovare le proprie radici, quelle profonde e lontane delle generazioni che avevano preceduto la nostra, e quelle più vicine che noi stessi abbiamo affondato in quella terra amica, ricca di storia e di humus.

La città, l'architettura, hanno sempre posseduto un forte contenuto simbolico, non soltanto del tempo e della storia ma, nelle loro molteplici espressioni, sono state il simbolo non solo della fatica dell'uomo e delle sue capacità organizzative, ma anche dei suoi sentimenti, dei suoi turbamenti.

L'esame e la lettura della città e dell'architettura come significanti simbolici, allo scopo di comprendere i perenni messaggi, i significati ed i contenuti che esse esprimono col linguaggio duraturo delle pietre, è un'opera che va continuata, oggi con più vigore di ieri. Ciò alla luce di un rinnovamento culturale che si avvale di nuove teorie del linguaggio con le quali, ripercorrendo antiche strade, possono essere ottenute nuove scoperte, non solo sulla storia di un insediamento umano, bensì sulla stessa natura dell'uomo.

La città e l'architettura non sono soltanto simboli, sono anche linguaggio. Di ciò se ne era reso perfettamente conto anche un celebrato scrittore dell'ottocento, Victor Hugo che, ben oltre un secolo fa, molto tempo prima di Saussure, di Freud e di Jung, dedicò un intero capitolo dal suo famoso romanzo "Notre Dame", ad illustrare la lotta gigantesca che si era combattuta per secoli tra la cattedrale ed il "Torchio luminoso" di Gutemberg, tra l'opera edificata dell'uomo, il grande libro dell'umanità, e la stampa. Tra la parola di pietra e la parola stampata. In quel capitolo in cui fa una storia viva ed appassionata dell'architettura e dell'umanità come non si trova nei trattati specializzati, egli si sofferma sulla nascita del simbolo di pietra e svela come dal primo bisogno dell'uomo di elevare la propria anima verso le regioni dell'universale dando alla materia la suprema levità dello spirito, si pervenga all'affermazione del linguaggio simbolico che utilizza per esprimersi, le immagini e gli oggetti.

Ecco ciò che egli scrive a tal proposito: "Quando la memoria delle prime razze fu satura, quando il bagaglio di ricordi divenne per il genere umano così pesante e confuso che la parola, nuda e volante, rischiò di impoverirlo nel proprio andare, questi ricordi furono trascritti sul suolo nella maniera più visibile, più durevole e insieme più naturale.

Ogni tradizione fu suggellata sotto un monumento. I primi monumenti non furono se non blocchi dì roccia che il ferro non aveva toccato, dice Mosè. L'architettura cominciò come ogni scrittura. Fu anzi alfabeto. Si metteva una pietra dritta, ed era una lettera, e ogni lettera era un geroglifico e su ogni geroglifico poggiava una serie di idee come il capitello su una colonna. Così fecero i primi uomini, dovunque, nello stesso momento, sulla superficie del mondo intero. La pietra alzata dei Celti si ritrova nella Siberia asiatica, nelle pampas americane. Più tardi si fecero parole. Una pietra fu sovrapposta a un'altra, le sillabe di granito si accoppiarono, il verbo tentò qualche combinazione. Il dolmen e il cromlech celti, il tumulo etrusco, il galgal ebraico sono parole. Alcuni, il tumulo sopratutto, sono nomi propri. Talvolta, quando la pietra era molta e c'era un vasto spazio si scriveva una frase. L'immenso cumulo di Karnac è già una formula completa. Vennero infine i libri. Le tradizioni avevano generato simboli, sotto i quali sparivano come il tronco dell'albero sotto il fogliame. Tutti questi simboli, nei quali l'umanità credeva, andavano crescendo, moltiplicandosi, incrociandosi, complicandosi sempre di più; i primi monumenti non bastavano più a contenerli, ne traboccavano da ogni parte, a stento quei monumenti esprimevano ancora la tradizione primitiva, semplice, nuda e fissata al suolo come lo erano quelli. Il simbolo doveva "espandersi" nell'edificio. Allora l'architettura si sviluppò con il pensiero umano; divenne gigantesca, ebbe mille teste e mille braccia, e fissò in una forma eterna, visibile, palpabile, tutto quel fluttuante simbolismo.

Mentre Dedalo, che è la forza, misurava, mentre Orfeo, che è l'intelligenza, cantava, il pilastro che è una lettera, l'arcata che è una sillaba, la piramide che è una parola, mossi da una legge che è insieme geometrica e poetica, si ragguppavano, si combinavano, si fondevano, scendevano, salivano, si disponevano vicini sul suolo, o in diversi piani del cielo, fino a che non avessero scritto, dettati dall'idea generale di un'epoca, quei libri meravigliosi che erano anche meravigliosi edifici: la pagoda di Eklinga, il Ramseion egiziano, il tempio di Salomone. L'idea madre, il verbo, non solo era al fondo di tutti questi edifici, ma anche nella loro forma. Il tempio di Salomone, per esempio, non era semplicemente la rilegatura del libro santo, era proprio il libro santo.

In ciascuno dei suoi recinti concentrici i preti potevano leggere il verbo tradotto e palesato agli occhi e seguirne le trasformazioni di santuario in santuario fino ad afferrarlo nell'ultimo tabernacolo nella forma più concreta e ancora architettonica: l'arca. In tal modo il verbo era contenuto nell'edificio, ma era l'involucro di questo a esprimere l'immagine, come la figura umana sul sarcofago di una mummia.

E non solo la forma degli edifici ma anche la posizione in cui si situavano rilevava il pensiero in essi rappresentato. A seconda che esprimessero un simbolo leggiadro o cupo, la Grecia coronava le proprie montagne di un tempio armonioso all'occhio, l'India sventrava le sue per cesellarvi quelle deformi pagode sotterranee sostenute da gigantesche file di elefanti di granito.

In tal modo nei primi seimila anni del mondo dalla più immemorabile pagoda dell'Indostan alla cattedrale di Colonia, l'architettura è stata la grande scrittura del genere umano. E questo è talmente vero che non soltanto ogni simbolo religioso, ma anche ogni pensiero umano ha in quel libro immenso la propria pagina e il proprio monumento".

Con tali attribuzioni simboliche anche la strada più semplice può trasformarsi in un "luogo", l'edificio più umile può divenire architettura e la più semplice delle case può divenire un monumento.

La forma della città antica

A questo proposito vale la pena di leggere le parole con le quali Vasco Pratolini introduce "II quartiere", uno dei suoi romanzi più generosi di ricordi di vita vissuta tra le strade e le piazze di una Firenze ormai quasi definitivamente perduta, eppur sempre viva nella memoria di coloro che, allora ragazzi, la rammentano con nostalgia, tenendola dentro di sé con la cura con cui si tiene da parte una vecchia e cara fotografia di famiglia.

"Noi eravamo contenti del nostro Quartiere. Posto al limite del centro della città, il Quartiere si estendeva fino alle prime case della periferia, là dove cominciava la Via Aretina, coi suoi orti e la sua strada ferrata, le prime case borghesi, e i villini. Via Pietrapiana era la strada che tagliava diritto il Quartiere, come sezionandolo fra Santa Croce e l'Arno sulla destra, i Giardini e l'Annunziata sulla sinistra. Ma su questo versante era già un luogo signorile, isolato nel silenzio, gravitante verso San Marco e l'Università, disertato dalla gente popolana che lasciava i figli scavallare sulle proprie strade dai nomi d'angeli, di santi e di mestieri, nomi antichi di famiglie "grasse" del Trecento. Via de' Malcontenti ne era un'arteria e un monito; Via dell'Agnolo la suburra, sulla quale immetteva Borgo Allegri ove in un'età lontana un'immagine della Madonna, dipinta da un concittadino immortale, portata in processione, si degnò miracolare in mezzo al popolo, "rallegrandolo".

Panni alle finestre, donne discenti. Ma anche povertà patita con orgoglio, affetti difesi con i denti. Operai, e più propriamente falegnami, calzolai, maniscalchi, meccanici, mosaicisti. E bettole, botteghe affumicate e lucenti, caffè novecento.

La strada. Firenze. Quartiere di Santa Croce".

C'è da domandarsi se tanta passione potrà caratterizzare, oggi, una qualsiasi prosa impegnata a descrivere una città che, dolosamente, si è dimenticata il dovere di essere un "luogo" per accogliere i propri abitanti e per accompagnarli, come un amico comprensivo e fedele, nelle vicende liete e tristi della loro vita. C'è da domandarsi se quella città, con quelle strade solcate come sono da cortei assordanti di veicoli che vomitano nell'aria fetori e veleni, guidati da uomini che sembrano gareggiare tra loro in stupidità e maleducazione, meriti ancora di essere ricordata o se non sia più giusto tentare di dimenticarla, come si tenta di dimenticare un incubo.

Per il Pratolini de "II Quartiere" - ancora ignaro di ciò che sarebbe accaduto alla sua città qualche decennio più tardi - le demolizioni di Santa Croce eseguite dal "piccone risanatore" del fascismo durante gli anni trenta, furono uno sfregio crudele ed immeritato per una città che, come Firenze, non aveva ancora conosciuto l'assalto della civiltà del benessere che molti anni dopo, soggiogata dalle lusinghe della motorizzazione privata, le avrebbe fatto cambiare totalmente il volto.

Dice Pratolini concludendo il suo libro: "... Marisa mi aveva preso a braccetto. Andavamo, tacendo, alta la testa, per le strade del Quartiere popolato dalla sua gente. Nel piazzale delle demolizioni la giostra girava deserta e fragorosa, simile ad un grande carillon animato; v’irruppero di corsa gli scolari. E Marisa disse: - Hai trovato diverso il Quartiere! Ma la gente c'è ancora tutta, lo sai. Si è ammassata nella case rimaste in piedi come se si fosse voluta barricare. Quei pochi che sono andati ad abitare alla periferia, dove c'è l'aria aperta ed il sole, nel Quartiere li consideriamo quasi come dei disertori. - Infatti - le rispose - anche l'aria ed il sole sono cose da conquistare dietro le barricate".

Pratolini non fu buon profeta perché oggi, per conquistare l'aria ed il sole, le barricate non sono più sufficienti.

La città è la dimora privilegiata dell'uomo. Non c'è niente nella città che egli non abbia voluto. Qui la natura è stata piegata al suo volere e quando essa prende nuovamente il sopravvento è solo perché egli la sta trascurando. Allora anche la città è rudere e morte. Nella città viva, la natura è prigioniera, è costretta a vivere nei propri recinti come un animale in uno zoo, e ad assumere le forme che l'uomo a suo capriccio le impone. Poiché è dalla "forma" che nasce l'immagine della città, alla forma di pietra e di calce deve far riscontro anche la forma della natura vegetale. La forma soddisfa le sue esigenze fisiche, il suo bisogno di agire, di operare, crea luoghi ove egli può vivere. Essa soddisfa anche le esigenze del suo spirito che egli nutrisce di immagini e, quindi, di idee, di pensieri, di sentimenti, di emozioni. La forma nutrisce il suo spirito coi suoi messaggi, parla al suo spirito. Per questo la natura, come la pietra, è costretta a subire la forma che egli le da, quasi a voler ricordare a se stesso la sua posizione di dominio su di essa, la sua figura di "creatore" di oggetti e di luoghi.

Portmann afferma che "la città è per l'uomo il luogo della sicurezza, della produzione e del soddisfacimento dei suoi molteplici bisogni" ed aggiunge che è l'unico luogo che renda possibile lo sviluppo della coscienza dell'Io e lo sviluppo della coscienza del Noi".

Sempre a proposito della "forma" urbana, Mitscherlich scrive testualmente nel suo libro "II feticcio urbano": "Pensiamo alle torri, alle mura, alle piazze, ai teatri, ma anche alle forme urbane nella loro globalità, al profilo di Roma, di New York. Queste cose hanno l’effetto - per ricordare Neutra - di "psicotopi", di punti in cui l'anima si acquieta. Chi in una giornata di autunno si trovi a camminare per Amsterdam, o in dicembre, per Arles o per Venezia, avverte la incomparabilità di queste strutture. Chi, per contro, si trovi di fronte ai silos abitazionali di Ludwigshafen o di Dortmund lo sa soltanto perché è andato là. La città configurata può diventare una patria, quella meramente agglomerata, no, giacché il concetto di patria esige i contrassegni di identità di un luogo".

La forma è natura, è pietra, è spazio, ma soprattutto è civiltà, è memoria, è storia. Ed è nutrimento dello spirito come il cibo è nutrimento del corpo. Distruggere la forma è distruggere l'uomo stesso che l'ha prodotta, è un delitto di genocidio.

La forma della città nuova

La città occidentale cerca faticosamente di adattarsi alle nuove forme di vita che emergono man mano la società industriale procede verso il "benessere". La città motorizzata si presenta diversa dalla città sorta a misura dell'uomo che si sposta prevalentemente a piedi: le periferie crescono a dismisura giacché le distanze non rappresentano più un ostacolo all'espansione. Ci si illude che l'auto possa risolvere tutti i mali urbani a vantaggio di un cittadino che, di giorno in giorno, accresce le proprie richieste di spazio e di mobilità. Illusione destinata ad una vita assai breve. Assai presto ci si accorge di avere sbagliato i conti: troppe auto per le poche strade costruite, e l'aria ed il sole che si pensava di godere spostandosi dai quartieri centrali verso la periferia - barattando in tal modo il vecchio significante col nuovo insignificante - spariscono dentro lo smog sommersi in un miscuglio di nebbia, di gas, di polveri, che insidia i nostri polmoni. A noi resta lo stress di una vita convulsa condotta all'inseguimento di orari, di ritardi catastrofici, di appuntamenti mancati, in una disperata rincorsa nel traffico, in concorrenza con altre centinaia di individui, anch'essi coinvolti in una unica tensione tra semafori, segnali di sosta, stop improvvisi, accelerate repentine.

In questo squallore che distrugge la vecchia città e fa abortire la nuova accomunandole in un unico destino che imprigiona la nostra vita di nuovi ricchi, qualcosa tuttavia può essere citato, almeno quale segnale di un desiderio di trovare una seria soluzione al problema dell'abitare civile.

Costruiamo l'ambiente per l'uomo. Ma come? E per quale uomo?

Per il cosiddetto uomo medio? O forse per quell’uomo che, nonostante ogni analisi statistica ed ogni pressione psicologica continua ad essere diverso, individuo da individuo, e sempre diverso da se stesso per età, per esperienze, per esigenze fisiche, per orientamenti e preferenze?

Per un uomo cosiffatto le generalizzazioni sono difficili e quasi sempre insoddisfacenti: si ricerca un minimo comune denominatore e su quella base si opera.

Di mediazione in mediazione si procede verso un disegno che traccia in ogni dettaglio un fantasma. Ed è a tale fantasma che si ispira il modello per la soluzione dei problemi di convivenza e di sopravvivenza, come se il destino dell'uomo, di ogni uomo, fosse invariabilmente lo stesso, quello dell'uomo "medio".

L'immaginazione e la fantasia divengono vittime della statistica che, con voce autorevole, appiattisce e regolarizza tutte le variabili umane, in contrasto con il procedere della natura che, al contrario, come la ferrea legge dell'invarianza genetica con l'errore, offrendo soluzioni sempre nuove e facendo prevalere, pur nell'ordine splendido di equilibri straordinari, il "caso" sulla "necessità".

Eppure le generalizzazioni, almeno in una cena misura, sono necessarie. Forse il difficile, sta proprio in questo, nella misura. Offrire a tutti un minimo sufficiente, un minimo dignitoso, lasciando a ciascuno la libertà di scegliere, tra i tanti possibili, il proprio personale cammino, il proprio lavoro con cui saldare il debito nei confronti della società e di se stesso, di perfezionarsi e di migliorarsi secondo le proprie inclinazioni, di occupare il tempo libero secondo le proprie preferenze.

Una libertà che non può essere scambiata con l'improvvisazione incoerente e disordinata, ma che, al contrario, fa discendere il proprio equilibrio dalla riflessione e dalla consapevolezza.

Vi sono episodi di nuovi insediamenti che costituiscono qualcosa di più di un semplice tentativo di dare una interpretazione nuova della città. Mi riferisco alle più recenti realizzazioni di cui, per tutte, ricordo le new towns inglesi, le villes nouvelles francesi, i verdi sobborghi svedesi, le realizzazioni collettive olandesi.

Tuttavia anche negli esempi più maturi, nelle soluzioni più evolute dal punto di vista sociale, vi è sempre qualcosa che manca, sebbene tutto sia stato meticolosamente previsto, pianificato, preventivato: il numero degli abitanti, delle famiglie, dei bambini, degli adulti, dei vecchi. Per ognuno vi è una superficie utile di casa, di scuola, di servizio sanitario, di shopping, di giardino, di parcheggio... Eppure c'è qualcosa che viene a mancare a chi abita questi centri, qualcosa di non ben definibile, di imprecisabile, ma di cui si avverte senza incertezza l'importanza. Qualcosa che rende estranei gli abitanti alla città, che opera come elemento di separazione, di emarginazione e che è probabilmente il prodotto sofisticato di un nuovo tipo di violenza; qualcosa che sradica con la lusinga o l'imposizione il cittadino dal proprio ambiente togliendogli il più sacrosanto dei propri diritti: quello di scegliere la propria vita, di contribuire insieme agli altri a modellare l'ambiente nel quale vive ed opera, di sentirsi partecipe del processo di evoluzione del gruppo sociale al quale appartiene.

Forse è la storia che manca in questi quartieri, con i segni della lotta, della fatica, delle idee, delle conquiste, delle sconfitte, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto ed in una parola di ciò che è umano e che dell‘umano rappresenta il travaglio o la sofferenza o la gioia.

Quartieri nei quali tutto è pulito, ordinato, in cui la geometria viene esaltata dalla ripetizione e dall'allineamento dei volumi, ma da cui traspare l'anonimicità di un progetto gelido e astratto che valorizza la funzione e la razionalità: sicché talvolta, ed è un paradosso, viene da rimpiangere la miseria ed il disordine di taluni quartieri poveri delle nostre vecchie città. Questi nuclei urbani non hanno avuto alcun rapporto col gruppo sociale che li abita. Sono nati da un progetto: rappresentano una sintesi a priori nella quale hanno influito in modo determinante i presupposti dell’uomo medio e delle sue esigenze in una ipotesi progettuale alla cui formazione, questa entità astratta che noi chiamiamo appunto uomo medio, non ha collaborato, non ha portato alcun contributo. Essi sono sorti sulla base di un modello teorico generalmente chiuso, e perciò immodificabile; non un ambiente per l'uomo, adattabile all'uomo, ma un luogo al quale l'uomo, lo voglia o no, deve adattarsi.

È proprio questo contenuto astratto che fa di questi insediamenti luoghi talvolta inospitali.

È forse giusto riflettere su questo aspetto, sulla crescita urbana intesa come attuazione di un "progetto" che viene concepito ed elaborato nella sede dello stato maggiore urbanistico, in un dibattito che coinvolge al massimo responsabilità politiche e competenze tecniche, ma che lascia fuori dell'uscio coloro che della città sono gli autentici protagonisti. Riteniamo non sia demagogico affermare che è ormai maturata l'esigenza di considerare la crescita della città, come il momento di coagulo, di sintesi organica, del quale ciascuna delle forze che operano al suo interno deve poter portare il proprio contributo. Dovrebbe essere possibile ritrovare in tal modo quel rapporto che fa della città e del gruppo sociale non due entità estranee l'una all'altra, ma nuovamente un sistema entro cui l'avvicendamento dei ruoli e le influenze reciproche si ricompongono nella continuità storica, nel processo di crescita e di sviluppo.

Il proliferare di nuovi nuclei urbani o la crescita dei nuclei periferici pone, in modo sempre più pressante, un problema. La gente si sposta nelle nuove aree urbane ma non le riconosce come "luoghi", non riesce ad affezionarvisi.

Per essa il richiamo del vecchio nucleo, della vecchia città, è sempre ancora fortissimo. Non ritengo si tratti di semplice nostalgia. È qualcosa di diverso, di più profondo e di più tenace. La gente, contrariamente a quanto accade nei nuovi quartieri dormitorio della periferia, riconosce nella vecchia città un "luogo" nel quale ritrova se stessa, le proprie radici culturali, i simboli del proprio modo di esistere. Forse di tratta di sensazioni, certo è che quelle strade, quelle piazze, quelle case, quegli spazi murati, si rivolgono a noi con un linguaggio che ci è familiare, che conosciamo e che quindi riusciamo a comprendere. In quel linguaggio c'è il calore e la esperienza di generazioni lontane cui siamo legali dai sentimenti di una comune discendenza. Noi, la gente, con quegli spazi, con quei simboli, riusciamo a stabilire un colloquio, un'intesa, che invece ci sono preclusi appena ci inoltriamo nella gelida indifferenza dei nuovi quartieri, dove solo la superbia e l'arroganza degli stati maggiori cedono talvolta il passo al grottesco.

Molti sono i motivi che ci rendono difficile, se non impossibile, riconoscere nei nuovi insediamenti il "luogo" nel quale abitare ed a cui affezionarsi. Quali i maggiori? La misura diversa, che toglie ogni possibilità di riconoscere un angolo, uno spazio nel quale sia gradevole sostare, incontrare il prossimo, scambiare con esso due parole, conversare con un amico. L'assenza di edifici e di spazi costruiti per gli usi della popolazione e quindi al suo servizio. Il fatto che si tratti quasi sempre di spazi anonimi, come anonimi sono gli edifici che li delimitano: in genere brutte costruzioni alle quali sarebbe inutile chiedere un colloquio od un rapporto anche tenue con il passato, figlie come sono di genitori ignoti, ovvero di una moda internazionale firmata da un prestanome, assolutamente uguale in Italia come in Europa od in America od in Africa od in Asia. Oltretutto si tratta di spazi ingombrati dalle auto in sosta o solcati dalle auto in movimento. Sgradevole sostarvi nel primo caso, sconsigliabile perché pericoloso nel secondo. Una città come questa non è fatta per l'uomo, è nemica dell'uomo. Non può liberarlo né esaltarlo con la varietà delle offerte e delle soluzioni: può invece umiliarlo, imprigionarlo, renderlo schiavo, togliergli ogni prospettiva ed anche ogni illusione. Vivere in questo luogo è una condanna piuttosto che un privilegio. Un luogo come questo non offre soluzioni alternative oltre la fuga.

L'evoluzione della città

Cambia l'uomo col tempo e con l'uomo cambiano i suoi simboli, muta il proprio sistema simbolico. E l'uomo cambia perché cambia il suo sistema di relazioni, cui non sono estranei i suoi simboli quelli che ha ereditato insieme alla cultura dei propri padri e quelli che con la sua immaginazione ha costruito. Sarebbe troppo parlare di causa ed effetto secondo gli schemi deterministici per i quali ad una determinata causa corrisponde sempre uno stesso effetto. Se è possibile dirlo senza scandalizzare nessuno, penso che sia legittimo parlare di causa ed effetto in termini probabilistici per i quali, ad una determinata causa, corrisponde certamente un effetto, anche se non sarà sempre lo stesso. E ciò per qualsiasi uomo ed anche per lo stesso uomo, quando la stessa causa si produca in tempi diversi.

Nel nostro paese l'avvento della industrializzazione ha dato l'avvio a migrazioni bibliche dalle zone economicamente deboli a quelle economicamente forti. Si è potuto assistere in tal modo al taglio netto delle radici culturali di intere popolazioni trapiantate in aree lontane, non solo spazialmente, dalla loro terra di origine. Contemporaneamente un altro fenomeno ha provocato le stesse conseguenze seppure in modo meno repentino. Le radici non sono state bruscamente recise, ma se ne è favorito l'inaridimento col progressivo mutamento forzoso delle abitudini: si è allargata la cerchia degli interessi, sono aumentati gli spostamenti spaziali a causa di una molteplicità di motivi, si sono allargati i contatti e le esperienze, si è ampliato l'orizzonte delle informazioni. A causa di tutto ciò; di questo nuovo ed intenso peregrinare da un luogo all'altro, da una informazione all'altra, da un interesse ad un altro, i rapporti con i luoghi di origine e con la cultura di origine, si sono ridotti e, di conseguenza, si sono attenuati al limite della precarietà, i già labili legami che ogni cittadino aveva con la propria tradizione.

In questo affannoso peregrinare, i luoghi si sostituiscono ai luoghi, le sensazioni alle sensazioni: non è consentito ai nuovi cittadini di innamorarsi di alcun luogo. Egli è così destinato a perdere un sentimento gradevole, la nostalgia dei luoghi, che si traduce in ultima analisi nella perdita del sentimento dei luoghi.

Le informazioni si susseguono, fino a divenire un fiume impetuoso che esonda oltre ogni arginatura. La seconda informazione cancella la prima, la terza la seconda e così via, sicché il disorientamento cresce in misura incontrollata ed incontrollabile. Le troppe informazioni si cancellano l'una con l'altra, oppure si accavallano in modo inconcludente, molto raramente riescono a trasformarsi in conoscenza. Anzi è proprio la conoscenza che viene messa in crisi a causa di un impossibile dominio sulle informazioni. La chiarezza che si vuole ottenere diviene confusione producendo effetti devastanti: si perde la coscienza dei luoghi, dei dialetti, delle usanze, delle abitudini. È tutto un mondo che crolla, mentre il nuovo non appare ancora all’orizzonte, su cui si vedono alla deriva soltanto i relitti di un passato che rischia, così continuando, di perdere il fascino della verità per acquistare quello oleografico, artificioso e caricaturale di un revival di tempi e di mondi non solo molto lontani, ma definitivamente distaccati da noi.

Anche l'individuo cambia. Cambiano i gusti, i desideri, le attese, le ambizioni. Cambiano in una parola i suoi costumi, il suo stesso sistema di valori. L'ambiente culturale si trasforma e, nella sua trasformazione, tende ad uniformarsi secondo prototipi che vengono imposti dal bombardamento dei mass-media. Le reazioni che si verificano sono diverse: di assoggettamento, di integrazione, di avversione, di fuga a seconda degli atteggiamenti di accettazione o di ribellione. Certo è che da questo clima l'individuo ne esce penalizzato, tanto che si vanno a cercare con la fuga, altri interessi di ordine morale o religioso o politico per reagire al senso di solitudine e di vuoto che si è provocato. Il nuovo ambiente culturale, fatto di grandi e piccole cose generalizzate, ripetute, imposte, sottratte, sostituite, precarie, illusorie, non credibili, sfocia nell'annullamento della personalità individuale che tende a trasformarsi in personalità di gruppo. Ne deriva un pericoloso conformismo, una pericolosa deresponsabilizzazione del singolo che si sente confuso nell'anonimato, sollevato da impegni che non siano gli stessi del gruppo cui appartiene. Perde la coscienza di sé, non è più in grado di svolgere una seria attività critica, diviene un debole, incapace di valutazioni personali, distinguere il bene dal male. Una tale drammatica situazione, che rende il singolo un oggetto facilmente manipolabile, potrebbe andare sotto il nome di plagio sociale. In tali condizioni tutto diventa possibile, compresa la perdita completa della coscienza individuale cui fa seguito, fatalmente, la terribile oppressione della solitudine. Allora l'individuo, può perdere il contatto col gruppo e può trasformarsi in un relitto sociale.

Quali le conseguenze sulla città? Ed anche quali le responsabilità della città?

I tentativi di cambiare la città per adeguarla ai nuovi tempi si sono susseguiti. A promuoverli hanno concorso diverse motivazioni, che possono essere riassunte in tre gruppi: motivazioni di ordine sociale ed igienico; legate alle esigenze della produzione industriale che richiedeva notevoli disponibilità di manodopera; di carattere meramente speculativo che lega la valorizzazione monetaria delle aree alla produzione edilizia.

Del primo gruppo fanno parte tutte le interpretazioni utopistiche dell’ottocento connesse al problema dell'abitare ed in genere spinte alla ricerca di un rapporto tra l'abitare ed il produrre. Tra queste, significative, sono la "Istituzione" di Owen che culmina con l'esperimento - fallito - condotto in America nel villaggio chiamato New Harmony, a sua volta innestato sul precedente fallimento dell'iniziativa di Rapp chiamata Harmony; le indicazioni del Saint Simon, il Falansterio di Fourier, il Familisterio di Godin. Tutte queste iniziative partivano dal presupposto di dar luogo ad una riforma sociale cui intendevano contribuire con le loro iniziative le quali, in tal modo, si trasformavano in vere e proprie sperimentazioni di convivenza sociale mediante forme originali di aggregazione legate alla produzione e con tendenze di tipo autarchico relativamente ai servizi ed alla alimentazione. Vanno probabilmente comprese tra tali ipotesi utopistiche anche le Unità di Abitazione progettate e realizzate da Le Corbusier le quali, pur essendo alquanto più vicine alla realtà sociale esistente negli anni in cui sono state costruite, tuttavia hanno registrato un insuccesso proprio in quelle aggregazioni di servizi accessori all'abitare, ora soppresse, che le differenziavano sostanzialmente dalle comuni edificazioni abitative.

La stessa utopia di Wright, Usonia, con la città di Broadacre, caratterizzata dall'assegnazione di un acro di terreno per ogni abitante, può essere compresa nel primo gruppo.

Del secondo gruppo fanno sicuramente parte quelle iniziative che dalla seconda metà dell'ottocento ad oggi hanno dato luogo alla costruzione di villaggi od insediamenti operai e per lavoratori, fioriti in grande quantità in tutte le periferie delle grandi città europee.

Solo negli ultimi anni, in special modo nell'ultimo dopoguerra, i villaggi e gli insediamenti sono stati completati di tutti i servizi necessari per allontanare da essi il sospetto di essere soltanto dei quartieri dormitorio.

Del terzo gruppo fanno parte tutte le iniziative in seguito alle quali si è attuata la più gran parte della espansione urbana, ivi comprese le cosiddette città giardino le quali hanno avuto per scopo principale quello di costituire un richiamo per un abitante generalmente più esigente e con maggiori disponibilità di denaro.

Nelle nostre città, ed in talune di esse il fenomeno è particolarmente pesante, si notano soluzioni nelle quali la casualità non è guidata da alcuna regola che si ponga obiettivi estetici, igienici o di funzionalità urbana. Ciò al contrario di quanto accadeva in antico dove il progetto urbano sembra essere assente anche se in realtà non lo è e, nei casi in cui esso mancava totalmente, era almeno sostituito da una quantità di regole comuni e comunemente accettate alla base delle quali si ponevano le obbligazioni costruttive dettate dall'uso dei materiali impiegati. Così accadeva che le scansioni tra gli edifici e tra le parti di essi, erano dettate dalla lunghezza più conveniente dei tronchi di albero dai quali si dovevano ricavare le travi per il sostegno dei solai, dalla tecnica muraria che utilizzava in prevalenza mattoni o pietre, e così via. Queste obbligazioni conferivano al risultato finale una omogeneità del linguaggio architettonico dal quale dipendeva, pur nella marcata diversità che distingueva un edificio da un altro, l'equilibrio formale che ancora oggi possiamo ammirare.

Quale luogo per l'uomo?

Il mondo e l'uomo si sono trasformati. In meglio ed in peggio. E il peggio, purtroppo, e l'alto prezzo del meglio.

Ma qual è il "peggio" dell'uomo?
Si è innescato un processo che vede l'uomo impegnato nella disperata conquista di beni materiali sempre nuovi ed in quantità sempre maggiore. A motivo di questo processo, si è fortemente accentuato il suo desiderio di potere e di ricchezza mentre, altrettanto fortemente, è diminuita la sua sensibilità nei confronti della natura.

Potremo domandarci perché tutto ciò è potuto accadere ed allora ci sarebbe da domandarci cosa è stato fatto per comprendere con chiarezza quali destini avremmo dovuto perseguire per l'uomo, se una illusoria quanto fasulla ricchezza creata artificialmente nell'artificiale o se, invece, non fosse stato più giusto perseguire l'obiettivo del suo equilibrio di essere pensante, ricercandolo più naturalmente nel naturale.

Due concezioni diverse, antitetiche, inconciliabili, ma probabilmente mediabili.

L'esistenza dell'uomo è strettamente dipendente dall'ambiente. L'uomo, per vivere, ha bisogno dell'ambiente. L'ambiente per sopravvivere non ha bisogno dell'uomo.

II rapporto tra l'uomo e l'ambiente è stato alternativamente caratterizzato da vicende idilliache o drammatiche tanto che l'ambiente, per l'uomo, alcune volte è stato l'eden, altre volte l'inferno, un luogo di paradiso o di dannazione.

In questo alternarsi di vicende ora positive ora negative che sembrano caratterizzale da un rapporto complesso di amore e di odio con la natura, l'uomo, con le sue iniziative, ha sempre avuto un ruolo non secondario. L'obiettivo delle sue iniziative sull’ambiente non è mai cambiato nel tempo e - salvo poche eccezioni - può essere così descritto: ricavare il massimo di utilità per migliorare le condizioni di benessere attraverso un rapporto con l'ambiente sempre più stretto ed esigente. I risultati ottenuti li possiamo osservare con i nostri occhi: purtroppo non sembrano confermare le attese talché, nel migliore dei casi, essi debbono essere considerati fortemente contraddittori.

Non è questo il caso di domandarsi ulteriormente il perché di tale contraddittorietà, dal momento che le risposte a questa domanda in gran pane ci sono già e molti autori che hanno indagato con successo sulle conseguenze ambientali delle attività umane, ne danno convincenti spiegazioni.

Certo è che oggi l'uso scriteriato delle risorse ambientali - ma si potrebbe parlare di sperpero - ha provocato una grave situazione di degrado, spesso oltre i limiti della reversibilità. In questa situazione la parola d'ordine è divenuta: "risanamento". Una parola che fa paura perché suona come condanna ad una attività fin qui svolta con troppa disinvoltura, essendo prevalentemente impegnati a ricavare benefici immediati senza valutare le conseguenze negative di un simile atteggiamento.

Parliamo dunque di risanamento ambientale.
Debbo subito premettere che, a mio giudizio, qualunque intervento venga attuato per risanare l'ambiente urbano è destinato ad ottenere risultati provvisori se viene rivolto ad eliminare soltanto gli effetti negativi dei nostri comportamenti, senza rimuovere preventivamente le cause che li hanno prodotti. E ' mia convinzione che per migliorare le condizioni di un ambiente e sottrarlo in modo duraturo alle condizioni di degrado in cui si trova, occorra prima di tutto eliminare le cause - anche quelle più remote - che lo hanno provocato. Agire sull'effetto trascurando la causa, equivale ad adottare una cura sintomatica che lascia il paziente nel suo stato iniziale di malattia.

Può soccorrere un banalissimo esempio. La nostra città, come molte altre del resto, è cronicamente sporca. Tale stato risalta con tanta maggiore evidenza ove lo si confronti con quello di altre città straniere, magari svizzere. Può capitare che una strada venga in qualche ora del giorno pulita dai mezzi della nettezza urbana. Il risultato è prodigioso. Peccato che duri poco. Bastano infatti alcune ore ed anche meno, per ritrovarsi nuovamente nella situazione iniziale. Viene da domandarsi: come mai le città svizzere sono pulite mentre Firenze è cronicamente sporca? Forse i servizi di pulizia svizzeri sono più efficienti dei nostri? La risposta è ovvia. Non è ai servizi di pulizia che debbono essere addebitate quelle responsabilità, bensì alla "educazione" dei cittadini i quali, come appare evidente, hanno un diverso concetto del rispetto che si deve riservare ai luoghi pubblici. Sembra inutile ricordare che, nel nostro caso, lo sporco è l'effetto mentre i cittadini sono la causa. Si deve perciò concludere che per ottenere di Firenze una città pulita il rimedio da proporre è banalissimo: pretendere che i suoi cittadini - e non solo quelli, ovviamente - si adattino a rispettare maggiormente la propria città. Rimedio banale, anzi banalissimo ma, purtroppo, di difficile attuazione: riuscirà mai il presidente dell'Asnu a persuadere i fumatori a non gettare nella strada, cicche, fiammiferi e pacchetti vuoti di sigarette? O a persuadere una madre, una sola, ad impedire che il proprio bambino getti fuori degli appositi cestini l'involucro del gelato? Ahimé ne dubito proprio.

Non è indispensabile ricordare che cosa si debba intendere per "ambiente" in generale e per "ambiente urbano", o "città", in particolare.

Ritengo che la nozione di ambiente possa essere riassunta con la seguente descrizione: "L'ambiente è un sistema spaziale, organico, aperto, formato da oggetti e da individui che hanno tra loro rapporti e connessioni di vario ordine e natura, essendo ciascuno di essi in grado di esercitare una qualsiasi influenza su tutti gli altri oggetti e su tutti gli altri individui". Si tratta di una definizione che esalta il carattere dinamico dell'ambiente e che è molto vicina alla realtà. Essa avverte inoltre che l'ambiente appare come un sistema "spaziale" nel quale il "tempo", 1'"energia" e 1"'inforni azione" hanno un peso determinante in tutte le trasformazioni che si verificano al suo interno; "materiale" se le sue componenti possono essere cose od organismi viventi; "aperto" e non chiuso, perché esso, indipendentemente dalle dimensioni che gli abbiamo assegnate, attiva scambi di varia natura con altri sistemi; "strutturale" ed "organico" se i singoli componenti tendono a perdere la loro individualità per ricercarne una affatto nuova ed a dare origine, attraverso mutui scambi di energia, materia ed informazione, a nuove unità, a nuovi organismi avviati verso livelli di organizzazione sempre più ampi e complessi, evolvendosi in tal modo verso l'ordine e l'organizzazione.

In un sistema come quello ambientale "qualunque cosa accada è effetto di una determinata causa e, allo stesso tempo, è causa di un successivo effetto".

Se, seguendo i ragionamenti organicisti di Laborit, volessimo distinguere nell'ambiente ed in particolare nella città, la compagine umana dalla compagine fisica, assegnando alla prima il ruolo primitivo di "causa" ed alla seconda il ruolo di "contenitore" e quindi di "effetto", dovremmo convenire che tali ruoli non sono affatto stabili poiché tendono ad invertirsi in una successione continua di alternanze. Ciò significa che il Laborit, nel confermare il rapporto di causa ed effetto esistente nei sistemi ambientali, conferma anche la sua convinzione che la compagine fisica giochi un ruolo non trascurabile nel determinare gli assetti ambientali. È bene tuttavia sottolineare che sono soprattutto le iniziative della compagine umana a condizionare in modo decisivo l'insieme dei predetti assetti ambientali.

Come la mettiamo allora con la serie dei provvedimenti che vengono attuati e proposti per "risanare" l'ambiente?

La prima e più immediata risposta che si può dare è che si addivenga rapidamente ad una inversione di tendenza e che si approdi definitivamente alla accettazione del principio secondo cui "l'uomo è il fine di tutte le attività e non il mezzo". Potremo avere così una società che si pone a disposizione dell'uomo e non un uomo che deve subire le distorsioni spesse volte nefaste della società. Potremo avere un ambiente adattato per la vita dell'uomo e non un uomo costretto ad adattarsi ad un ambiente che gli è decisamente ostile al punto da porre in dubbio le sue possibilità di sopravvivenza. Potremo avere una produzione di beni condizionata alle effettive esigenze umane e non un uomo costretto a trasformarsi, contro la sua volontà, in un accanito consumatore.

Dovremo allora domandarsi a quale modello di uomo sarà lecito riferirci e quale progetto di uomo dovremo cercare di attuare. Potremo allora domandarci quali saranno le sue esigenze ed i suoi bisogni cui la società dovrà in qualche modo far fronte. Quale uomo? Uomo-massa o uomo-persona? Sono due modi diversi di essere uomo, uno opposto all'altro. Il primo, pone l'uomo al servizio della società. Il secondo vuole invece la società al servizio dell'uomo. Una tale distinzione supera barriere politiche e barriere sociali poiché è dato di constatare che la formazione del secondo tipo di uomo -1'uomo-persona -sebbene si usino modi diversi, è fortemente ostacolata in ogni parte del mondo. Per sfuggire al destino di uomo-massa, un individuo che voglia essere persona deve procurarsi da solo i propri spazi di libertà.

È noto come i sistemi tanto più sono complessi, tanto più sono stabili. Le società attuali divise grosso modo in due grandi categorie, quelle del cosiddetto socialismo reale e quelle che comprendono le democrazie occidentali, sono rispettivamente società politicamente semplificate e società molto complesse.

La logica della stabilità dei sistemi che vuole tanto più stabili i sistemi, quanto più sono complessi, sembra attribuire alle società occidentali una maggiore probabilità di sopravvivenza. Questa constatazione non ci tranquillizza, giacché siamo costretti a rilevare che tutte e due queste grandi categorie di società umane sembrano trascurare la possibilità di trasformare l'uomo-massa in uomo-persona. Le società occidentali in modo meno aperto, ma più pericoloso. Da un lato gli fanno intravedere infinite possibilità di scelta, dall' altro lo lusingano con un ventaglio sconvolgente di offerte di beni di consumo, il cui possesso gli farebbe raggiungere la felicità. In ultima analisi la società dei consumi esige un cittadino preparato a produrre di più ed a consumare di più: egli deve essere preparato a svolgere molte attività inutili per poter consumare molti beni inutili.

Come invertire la tendenza? Si tratta di una lotta molto difficile perché l'uomo-massa antico prodotto dell'ignoranza, destinato, almeno così si riteneva, a scomparire con la diffusione della conoscenza, non solo non è scomparso, ma si ripropone inopinatamente in una edizione del tutto rinnovata e corretta: si tratta questa volta di un uomo-massa colto, preparato, completamente diverso da quello classico della letteratura a sfondo sociale. Siamo probabilmente in presenza di una nuova e più pericolosa forma di ignoranza, più perniciosa e più difficile da estirpare, quella di chi, conoscendo o ritenendo di conoscere, non è in grado di governare la propria conoscenza.

Quali beni per l' uomo?
Sappiamo che la produzione dei beni ed il loro uso costituiscono altrettante minacce agli equilibri ambientali. In se stessa la prospettiva di un equilibrio diverso non sarebbe agghiacciante.
Lo diventa però quando ci si rende conto che il nuovo equilibrio è peggiore del primo e che così procedendo i pericoli per il pianeta che è la nostra casa, la casa di tutti gli uomini, aumentano sino a minacciare, sia pure in tempi fortunatamente non brevi, la stessa sopravvivenza dell'uomo.

Iniziare una elencazione dei misfatti equivarrebbe a far scorrere un brutto film sulle interpretazioni moderne delle lamentazioni di Geremia.

Certo è che non tutto è buono e non tutto è cattivo per cui occorre una buona volta avere il coraggio di distinguere. Porsi al di là del bene e del male, è una suggestiva ma impraticabile ipotesi avanzata da Nietzsche, alla quale probabilmente nemmeno lui affidava troppo credito.

Occorre capire quali sono i beni buoni e distinguerli da quelli cattivi. Occorre capire come questi beni buoni vanno usati, perché di essi vi può essere un uso buono ed un uso cattivo.

Tra i beni buoni certamente vi sono la casa e la città. Il problema è semmai quello di raggiungere il giusto equilibrio tra la congestione urbana e la dispersione sul suolo, due mali opposti il primo dei quali facilita il malessere sociale ed il secondo, oltre a costituire occasione di spreco del suolo, genera esigenze di mobilità che non possono essere soddisfatte senza l'aiuto di un mezzo di locomozione.

Per svolgere il ruolo che le compete, di bene utile e buono, la città deve tornare ad essere un "luogo" riprendendo coi propri abitanti il colloquio purtroppo interrotto in questi anni, fitti di novità sconvolgenti. Un colloquio che le parole di pietra, i simboli di pietra, sembrano aver dimenticato quasi si fossero inariditi. E del resto, come poteva accadere diversamente in questa nostra epoca in cui le parole di pietra non sono più in grado di unirsi tra loro per formare non un discorso, ma neppure una frase, se esse sono aggrovigliate tra loro, spezzate, confuse, capaci solo di articolare espressioni senza senso perché anch'esse aggrovigliate, spezzate, confuse?

Lo spazio e la forma

Nonostante il suo disperato desiderio di fuga l'uomo di questi giorni, come Ulisse, sogna la pace serena di un rifugio. Si può anzi dire che il suo desiderio di fuga venga provocato dal bisogno di sottrarsi alle sofferenze di una realtà inquietante nella ricerca di un luogo sicuro ove acquietare la propria anima.

Ed ecco che quasi inaspettatamente l'uomo-massa perde la sua scorza di zingaro dei luoghi, di girovago senza perché, per ritrovarsi finalmente protagonista del proprio destino. E lo fa risvegliando l'uomo-persona che sonnecchia dentro di lui.

Quest'uomo, nuovo ed antico, sebbene bersagliato da innumerevoli stimoli che tentano di confondere la sua personalità, lusingato dalle prospettive di una vita colma di oggetti dalla superficie luccicante, tra mille ostacoli, cerca di aprirsi un varco per ritrovare il sentiero smarrito.

Perciò torna a guardare la natura riscoprendone il fascino troppo presto dimenticato e ad immaginare intorno a sé, nei luoghi in cui vive o, come direbbe Heidegger, nei luoghi ove egli abita in questo mondo, l'ordine che le sue attitudini razionali, i suoi sentimenti e la sua memoria della stirpe gli suggeriscono. Per questo vuole lo spazio entro cui si svolge la sua vita, sia ricco dei significati della sua esistenza. Per questo egli chiede che quello spazio perda il carattere freddo e la insignificanza dell'anonimato, per divenire un "luogo" connotato dalla sua presenza. E di quel "luogo", che è poi la dimora materiale ed immateriale in cui si svolge la vita umana, il divenire stesso dell'uomo, torna a scoprire la "dimensione simbolica".

L'Architettura ha sempre posseduto nella città, nei "luoghi" della città, un notevole contenuto simbolico, sicché si può dire che la dimensione della città, oltre ad essere spaziale, materiale e funzionale, sia soprattutto quella simbolica? Ed infatti essa non si è mai limitata a restare un semplice "segno" della storia, ma ha sempre conservatela sua fondamentale natura di simbolo dei sentimenti umani. Ancoroggi, nonostante il mondo sembri congiurare contro di lei, essa rivendica il proprio insostituibile molo di "simbolo" dell'universale collocato fuori delle categorie storiche del tempo e dello spazio. E ciò anche quando costruisce i "luoghi" dell'uomo, la casa dell'uomo, la città dell'uomo.

Vi è un nesso che lega il protagonista dell 'opera con 1 ' opera stessa, l'uomo con la città. Tale nesso è il mondo simbolico universale che esprime la natura universale dell'Uomo, il suo "essere" ed il suo "vivere", V'essere" ed il tempo del suo divenire.

La città vive nel tempo e con gli uomini; ad ogni generazione parla col suo linguaggio simbolico universale che, sorto in una particolare esistenza e quindi nella storia, esprime tuttavia contenuti che possono essere compresi da ogni esistenza e, quindi, universali.

Ci sono città e zone di città dove abitare, sostare o soltanto passeggiare è più piacevole che in altre. Spesso si tratta di città antiche, di case antiche, dì piazze o di vie antiche, costruite moltissimi anni fa, quando la vita era ben diversa da quella attuale, meno dinamica, più semplice, più sobria.

La domanda che ci poniamo e perché questa preferenza persiste ancora, dopo tanti anni, in situazioni di vita totalmente cambiate.

Tali luoghi, con la loro incontenibile forza di persuasione culturale e con le loro qualità formali, possono provocare in noi uno stato di godimento non solo meramente estetico. Si tratta infatti di uno stato di felicità che non è provocato unicamente dagli stimoli sensoriali provenienti dal diretto "colloquio" tra il soggetto e l'oggetto, ma è anche la conseguenza di una mediazione culturale che sconvolge e talora annulla ogni giudizio ed ogni emozione personale.

Citiamo anche tutti gli altri casi di luoghi semplici, dalle architetture umili eppure pulite e dignitose, conservate alla buona da gente semplice, umile e dignitosa. Sono forme sorte secoli fa da un "progetto" oppure inventate lì per lì, costruite per soddisfare una necessità utilizzando la sola esperienza artigiana, e i materiali del luogo, con l'unica preoccupazione di costruire una casa ben ferma, che durasse nel tempo e costituisse il migliore impiego possibile delle risorse accantonate. Se si dovesse per queste forme individuare il movente, probabilmente dovremo ricercarlo nella massima utilità da ottenersi con il minimo impegno.

C'è da domandarsi come mai certe "forme" urbane sorte nei tempi passati per soddisfare alcune esigenze, oggi che tali esigenze non sono più attuali, continuino a comunicarci emozioni in modo così intenso e costante.

È evidente come la misteriosa "qualità" di quelle forme urbane, di quegli spazi urbani, non possa essere ricercata nella "funzione" che l'ha suggerita, oggi in gran parte perduta.

Il motivo va semmai ricercato nel contenuto simbolico che quello spazio, quella "forma" urbana riassume in sé favorendo una continuità culturale che unisce le generazioni dei secoli passati con la nostra. L'ipotesi della distruzione di una forma comporta la distruzione dei simboli che, a sua volta si traduce nella perdita dei significati e delle emozioni che quei simboli erano in grado di trasmettere. E ' quindi una perdita "culturale", assolutamente non sostituibile e, in quanto tale, costituisce un impoverimento della nostra cultura e, più in generale, una perdita secca per l'umanità. È accertato che la forma esercita una propria influenza sugli individui sui quali è in grado di suscitare reazioni emotive. Ciò accade in special modo negli spazi della città e dell'edilizia.

Essa può stimolare stati emotivi diversi come la repulsione, l'isolamento, il calore, la gioia, l'angoscia, il raccoglimento, la sicurezza e così via.

Vivere in un ambiente in grado di comunicare agli abitanti stimolazioni emotive che soddisfano il bisogno umano di fantasia, è sicuramente un privilegio. Vivere in un ambiente privo di tali attributi e di tali capacità o peggio, in grado soltanto di produrre stimoli e reazioni negative può essere una condanna. Il tema della "qualità" della forma è sicuramente importante nella progettazione urbanistica e architettonica.

Finora è stato trascurato, posto com'è stato in seconda linea dietro le più concrete problematiche del funzionalismo e del razionalismo e dietro quelle astratte ed inconcludenti dell'estetismo.

Si è fatto generalmente ricorso alla sperimentazione individuale effettuata in sede di progetto. Fino ad oggi essa ha costituito l'unico atteggiamento che ha consentito di produrre nuove forme e nuove soluzioni, con ciò avvicinando il lavoro del singolo progettista all'attività creatrice.

II fatto è che la sperimentazione individuale, anche quando esplora strade che si snodano in ambiti noti ed ideologicamente determinati come nel caso del movimento moderno o del post-moderno, si muove troppo spesso senza il supporto strumentale di un codice disperdendosi in una infinità disordinata di categorie estetiche o razionali, politiche o sociologiche, formali o tecnologiche, strutturali od economiche, percorrendo disordinatamente itinerari di ogni tipo che si intrecciano e si intersecano a vicenda formando un complicato e curioso disegno, sicché può talvolta accadere di scoprire nuovamente l'ombrello.

Viene cioè a mancare quella oggettivazione e quel coordinamento delle conoscenze senza cui ogni volta si inizia fatalmente dallo stesso punto, ignorando le precedenti posizioni acquisite.

A questo punto il discorso diviene di metodo e riguarda, da un lato la legittimità di un processo progettuale che si svolge per tentativi personali e, dall'altro, la legittimità di una razionalizzazione di tale processo nel tentativo di assumere alcuni valori oggettivi di riferimento. Esso riguarda le due correnti di pensiero (o i due movimenti) che informano la maggior parte della produzione architettonica attuale: il movimento moderno in primo luogo, perché ha fatto della razionalità e della funzionalità il presupposto oggettivo da cui vuol ricavare gran parte della sua attendibilità non solo culturale; il post-moderno in secondo luogo, perché fonda le proprie qualità formali sul recupero culturale di una "forma" architettonica, densa di significati simbolici non del tutto dimenticati.

Le predette qualità vengono ottenute attraverso interpretazioni, composizioni e ricomposizioni di archetipi formali (che potrebbero per tali ragioni essere considerati elementi oggettivi) in un gioco di libertà filologiche, di abilità e di arbitrarietà inventiva condotto senza regole ne freni.

Il richiamo alle qualità oggettive della forma non ha sottintesi ed è rivolto tanto alle qualità intrinseche, quanto a quelle di derivazione culturale, e perciò convenzionali. Tali qualità oggettive sono rilevabili in seguito all'acquisizione di valori che possono essere attribuiti alla forma con uno qualsiasi dei vari procedimenti conosciuti, anche se per le qualità di derivazione culturale i valori si presentano meno stabili per i mutamenti che possono verificarsi nel tempo.

Volendo riferirci alle qualità oggettive della forma potremo attingere agli studi condotti dalla scuola di Graz e da altri studiosi sulla psicologia della forma (gestaltpsichology). Si apprende così che la "forma" sussiste come insieme strutturato avente una propria unitarietà detta appunto formale.

La forma ci appare per quella che è (sintesi di componenti e di dettagli) grazie ad alcune proprietà che possono essere apprezzate soltanto nel loro insieme secondo un procedimento di sintesi.

La conoscenza della forma analizzata per dettagli o per parti, ci potrà dire tutto sugli elementi che la compongono, ma non riuscirà a dirci molto su quelle qualità misteriose che colpiranno l'osservatore, suscitando in lui le più vive emozioni.

A conferma di tutto ciò, vale ricordare quei luoghi che possono suscitare emozioni straordinarie, chiaramente percepibili in condizioni di osservazione normali.

Entrare in un tempio della cristianità, nella chiesa di Santa Croce in Firenze, equivale ad immergersi in un'atmosfera di cui si coglie l'invito mistico, per i grandi pilastri della navata centrale che reggono le pareti su cui si poggiano le grandiose capriate di legno del tetto, per lo spazio da essi scandito, per la luce filtrata dal rosone centrale, per quella grande superficie orizzontale su cui ci stiamo movendo. Tutti elementi che presi uno per volta mostrano la loro bellezza, ma che solo nel loro insieme conferiscono all'ambiente la carica mistica che abbiamo subito avvertito appena entrati. Anzi, a ben riflettere, per qualche tempo il turbamento provato una volta varcata la soglia della chiesa/si è impadronito di noi e ci ha impedito di svolgere qualsiasi attività mentale di tipo analitico, anche la più semplice analisi descrittiva dei singoli componenti di quella splendida forma. Può darsi che all'emozione mistica non sia estranea una qualche componente culturale. Certo è che essa viene comunicata attraverso un linguaggio simbolico i cui segni elementari, ma soprattutto il loro accostamento e la loro composizione spaziale, sono in grado di esprimere con una esemplare chiarezza lessicale, sentimenti e sensazioni diversamente difficili da trasmettere.

* Università di Firenze - relazione al convegno "Una città per l'Uomo" novembre 1989

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